Cosa sono, come si classificano, come si stampano e nobilitano e su quali certificazioni può fare affidamento l’industria grafica.
Di Lorenzo Capitani | Su PRINTlovers 103
In un ventaglio che dal poco nobile green-washing arriva alle dimostrazioni eclatanti di Ultima Generazione, il mondo, quanto meno quello occidentale, sembra abbia finalmente deciso di affrontare la transazione ecologica, di darsi regole e obiettivi per una produzione più sostenibile e rispettosa del pianeta.
È un percorso lento e complicato che ha dei costi, impone la rottura di consuetudini che appaiono a volte illogiche e richiede un impegno collettivo a qualsiasi livello.
Almeno in termini teorici, finora ogni invenzione, ogni nuova tecnologia o, in generale, ogni riorganizzazione delle logiche produttive è stata introdotta per migliorare la vita di tutti, per risparmiare in termini di tempi e costi, per aumentare la produttività e la ricchezza: il carbone, il petrolio, la plastica hanno assolto benissimo queste funzioni, ma per decenni non ci siamo preoccupati del fatto che sono risorse limitate, del loro costo ambientale, dell’inquinamento prodotto e dello smaltimento dei rifiuti.
Una nuova presa di coscienza
Ora sembra essersi innescata una presa di coscienza ecologica che quanto meno ci costringe a riflettere sul nostro modello di sviluppo per provare a cambiare direzione. Se negli anni Ottanta si agitava lo spettro della fine del petrolio, oggi i risultati dell’uso sconsiderato delle energie fossili è davanti a nostri occhi con il cambiamento climatico, le microplastiche nel mare, i PFAS usati per impermeabilizzare nelle falde, il PM10 e il particolato nell’aria, solo per citare alcuni dei problemi che ci troviamo ad affrontare. È chiaro che il fenomeno è amplissimo e direttamente proporzionale alla crescita della popolazione mondiale e dell’accesso alla ricchezza, soprattutto nei paesi emergenti dove la spinta a colmare il gap porta a bruciare le tappe e a ignorare gli effetti sull’ambiente a breve e lungo termine.
Se in passato sembrava un tema destinato a essere affrontato in un lontano futuro, e soprattutto davanti al quale i singoli avevano poche possibilità di intervento, ora si è capito che ciascuno può fare la propria parte. Le accese discussioni sull’auto elettrica ne sono l’emblema, per quanto possano essere viziate da pregiudizi. Anche solo dibattere di questi temi, con argomentazioni più o meno valide, fa bene alla causa perché pone il problema a livello del singolo, sia in termini di consumi che in termini di riciclo e riuso.
Dall’economia lineare all’economia circolare
Le energie rinnovabili e il riuso dei rifiuti, così come i materiali biocompatibili e biocompostabili, non nascono ora, entrano però finalmente in gioco e hanno ruolo attivo nella gestione del problema. Per capire l’importanza della biocompatibilità dei materiali occorre fare un passo indietro partendo dai rifiuti. Paradossalmente i rifiuti in natura non esistono: senza l’uomo tutto seguirebbe la legge di Lavoisier secondo la quale “nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma” e diventa cibo per qualcun altro o rientra in circolo. I rifiuti, invece, sono il fallimento del nostro modello di produzione, sono scarti da sovrapproduzione e nascono da un modello economico lineare in cui si sfruttano le risorse, si realizzano prodotti che, quando non servono più per obsolescenza o perché non funzionano, sono abbandonati nell’ambiente; nella migliore delle ipotesi, si cerca di riutilizzarne qualcosa.
Fin dalla nascita, la cosiddetta “waste economy” ha cercato o di estrarre energia dalla trasformazione dei rifiuti (es. termovalorizzatori) o in parte di riutilizzarli. Questa seconda possibilità ha dato vita all’economia del riciclo, in cui parte dei rifiuti viene riutilizzata come materia prima seconda per creare nuovi prodotti: è il caso del vetro, dell’alluminio, della plastica, con tutta una serie di difficoltà e di costi che vanno dall’approvvigionamento del rifiuto e della sua selezione omogenea alla sua lavorazione e trasformazione. Infatti, mentre vetro e alluminio possono essere riciclati all’infinito, la plastica presenta dei limiti. I tappi delle bottiglie per esempio sono in HDPE mentre le bottiglie sono in PET: le due plastiche, per non perdere le loro caratteristiche, devono essere rifuse più pure possibile, quindi per avviarle al riciclo è indispensabile separarle. Inoltre la plastica può essere riciclata al massimo 2-3 volte, poi non è più utilizzabile, mentre la carta arriva fino a 7 volte. Solo che la carta in linea di massima è anche biocompatibile e compostabile, mentre la plastica no e, quando finisce in ambiente, ci resta centinaia di anni. E così tanti altri rifiuti. Ecco perché la via vincente, oltre al riciclo, è quella che mira a non produrre più rifiuti. Come? Usando gli scarti e i sottoprodotti di un’industria come semilavorati o materia di partenza in un’altra, con o senza lavorazioni intermedie (end of waste), ma anche promuovendo l’ecodesign che impone di pensare allo smaltimento e al riciclo di un prodotto fin dalla sua progettazione.
Ma il vero salto di qualità si avrebbe con il passaggio dal riciclo al riuso, o meglio alla re-immissione in natura, in una circolarità perfetta in cui tutto, energia e materia, viene rigenerato. In quest’ottica, le bioplastiche rappresentano un caso virtuoso, accanto a quello più noto del riciclo della carta, e che ha un notevole impatto sul nostro settore della stampa, della legatoria e del packaging.
Le bioplastiche
Le bioplastiche, in particolare quelle compostabili, sono materiali relativamente nuovi che garantiscono un elevato livello di circolarità, destinato a estendersi. Si prevede che il mercato globale dei biopolimeri crescerà dai 10,7 miliardi di dollari del 2021 a 29,7 miliardi di dollari del 2026, con un tasso di crescita annuo del 22,7%. Ma cos’è una bioplastica? Per comprendere il termine “bioplastica”, si parte dalla “plastica”. La parola plastica deriva dal greco “plasticos”, che significa “capace di essere formato”. Questo termine si riferisce alla capacità di questi materiali di essere facilmente modellati, generalmente ad alta temperatura, per essere trasformati in oggetti a basso costo. Queste caratteristiche hanno contribuito al loro grande successo: la plastica è leggera, resistente, versatile e a buon mercato. E non necessariamente deriva dal petrolio: per esempio la galalite, una delle prime plastiche, deriva dalle proteine del latte!
Il quadrante delle bioplastiche
Una plastica si può definire “bio” quando è “biobased”, ovvero è composta, almeno in parte, da materiali che derivano da biomasse (materiali di origine organica che non hanno subito il processo di fossilizzazione) ed è biodegradabile, ovvero può essere degradata dai microorganismi. L’essere biobased non implica automaticamente essere biodegradabile: il fatto che una plastica venga prodotta a partire da materiali a base biologica non vuol per forza dire che sia anche biodegradabile. In generale si distinguono tre tipi di bioplastiche:
bioplastiche non biodegradabili costituite, in tutto o in parte, da materiali a base biologica come il PE e il PET biobased, entrambi fabbricati a partire dalla canna da zucchero anziché da risorse fossili, e il PA biobased, prodotto a partire da oli vegetali;
bioplastiche a base biologica e biodegradabili, tra cui le miscele di amidi come il MaterBi® utilizzato per i sacchetti della raccolta dell’umido;
bioplastiche biodegradabili costituite da materie prime di origine fossile.
Perché un materiale possa essere considerato “biodegradabile” è necessario che in natura esista un microrganismo, un batterio, un fungo o un’alga, in grado di decomporre, assimilare e infine mineralizzare il materiale. Questa decomposizione può avvenire in condizioni aerobiche (presenza di ossigeno) e produce anidride carbonica, acqua e sali minerali e nuova biomassa, oppure in condizioni anaerobiche (senza ossigeno) e in questo caso si ottiene anidride carbonica, metano, sali minerali e nuova biomassa.
Diverso ancora è il concetto di “compostabile”: la biodegradabilità infatti è un requisito per garantire la compostabilità, ma il fatto che una plastica sia biodegradabile non implica necessariamente che sia anche compostabile. Il compostaggio è un processo di trattamento di rifiuti biodegradabili che produce compost, un terriccio utile per l’agricoltura, chiudendo così il ciclo dei rifiuti organici. La norma EN 13432 definisce i criteri che devono essere soddisfatti affinché un materiale d’imballaggio possa essere considerato compostabile e quindi riciclabile insieme ai rifiuti organici: deve essere biodegradabile al 90% in 6 mesi, disintegrabile (dopo 3 mesi la sua massa deve essere per il 90% di dimensioni inferiori ai 2 mm), ecotossicamente innocuo (ovvero deve supportare una crescita sana delle piante senza effetti tossici), deve avere bassi livelli di metalli pesanti e non contenere altre sostanze chimiche pericolose.
L’impatto nella filiera della stampa
Ma perché ci interessiamo alle bioplastiche? Perché l’impatto della plastifica e della laminazione della carta sulla filiera della stampa, editoriale e commerciale, e del packaging è significativo. Teoricamente la carta plastificata, come quella di scatole, astucci, copertine di libri e giornali, flyer e confezioni in genere, non andrebbe buttata nel contenitore della carta, ma nell’indifferenziato perché contiene due materiali diversi che non possono essere separati facilmente. L’industria del riciclo ha risolto il problema con impianti che prevedono una fase di selezione per eliminare le impurità, come residui di plastica e di frammenti metallici. Ma questi residui costituiscono rifiuti che non possono essere riutilizzati in nessun modo. Oggi esistono però film bioplastici compostabili che possiedono proprietà equivalenti alle loro versioni convenzionali fossili, come flessibilità, durata, stampabilità, trasparenza, barriera, resistenza al calore, lucentezza e sono adatte al contatto con gli alimenti, in un range di temperature che spazia dal congelamento alla cottura in forno tradizionale. I tipi principali di bioplastiche, tutte biodegradabili e compostabili, sono:
PLA (Polilattico), derivato da zuccheri fermentati provenienti da colture di amido come mais, barbabietola e canna da zucchero: è biodegradabile e compostabile con buone proprietà di trasparenza e lucentezza che lo rendono adatto per laminazione e plastificazione;
PHA (Poli-idrossialcanoati), prodotto attraverso la fermentazione batterica di oli vegetali e zuccheri: è biodegradabile e compostabile, con buone proprietà meccaniche e di barriera;
PBS (Polibutilene succinato), derivato dall’acido succinico e dal butandiolo, che possono essere prodotti da risorse rinnovabili come la canna da zucchero o da biomasse.
Ci sarebbero anche il Bio-PE, biopolietilene, che pur non essendo biodegradabile contribuisce a ridurre la dipendenza dai combustibili fossili perché deriva da fonti rinnovabili, e l’acetato di cellulosa, che invece è biodegradabile ma non sempre compostabile secondo gli standard specifici della EN 13432 (molto dipende dai reagenti e dai catalizzatori utilizzati). I film di acetato di cellulosa, oltre a garantire comunque un alto livello di sostenibilità, hanno un’eccellente qualità estetica con alte prestazioni di lavorabilità e nobilitazione. Quanto ai finissaggi, esistono sia in versione opaca, con effetto satin, che lucida, con altissimo livello di brillantezza.
ISCC per una produzione ecologica e di qualità
Da print buyer, creativi e committenti di stampati, quello che conta è orientarsi in questa selva di sigle e materiali per evitare il green-washing involontario e avere consapevolezza del fatto che la filiera è pronta per una produzione più ecologica senza rinunciare ai finissaggi e alle nobilitazioni cui siamo stati abituati nell’era del fossile. Per andare sul sicuro viene in aiuto la certificazione ISCC (International Sustainability & Carbon Certification) che ha preso Pozzoli quest’anno, in occasione del rinnovo delle loro altre certificazioni. «Da oltre vent’anni – ci spiega Davide Biancorosso, HSE manager dell’azienda specializzata in packaging che detiene molti brevetti nell’ambito dell’entertainment – lavoriamo per ridurre l’impronta ambientale nostra e dei prodotti che realizziamo; in quest’ottica, quando abbiamo ripreso la produzione di dischi in vinile, abbiamo cercato una soluzione a basso impatto, che garantisse un prodotto di ottima qualità e che suonasse bene. La recente disponibilità di un PVC bio-based (o più tecnicamente “biocircolare” in quanto ottenuto dai rifiuti e dai residui di origine biologica provenienti dall’agricoltura, dalla silvicoltura e dalle industrie correlate) ci è parsa una buona soluzione e così abbiamo approcciato, dopo aver sentito il fornitore, la certificazione ISCC».
Il caso di Pozzoli
Nata per i biocarburanti, l’ISCC negli anni si è ampliata fino a includere come certificabili numerosi prodotti in bioplastica, compresi i vinili di Pozzoli. «Per noi – continua Biancorosso – si tratta di gestire un corretto bilancio di massa e tracciare tutti gli acquisti e le vendite di materiali e prodotti certificati; in estrema sintesi assomiglia a una catena di custodia forestale anche se un po’ più complessa e tecnica». Un percorso che ha richiesto non solo di cambiare mindset in direzione green, ma anche e soprattutto di modificare il workflow aziendale: «Capito quali fossero i requisiti applicabili alla nostra realtà produttiva, abbiamo individuato un ente di certificazione e avviato un audit. Nel mentre abbiamo aggiornato la documentazione a supporto del sistema di gestione integrato affinché i previsti requisiti di ISCC fossero pienamente soddisfatti. Le modifiche hanno interessato le procedure di acquisto e controllo, quelle di produzione dei dischi, quelle dei controlli qualità e di testing e, ovviamente, quelle per la tracciabilità. Rivedere e aggiornare i vari flussi di lavoro ci ha anche consentito di andare oltre l’obiettivo originale di certificare la produzione di dischi in bio-vinile. Oggi, se richiesto dai clienti, possiamo anche impiegare film in bioplastica certificata ISCC per plastificare stampati e packaging». Come stanno reagendo i clienti a questo approccio green? «Difficile dirlo dopo così poco tempo dall’ottenimento della certificazione, ma l’interesse è alto. Non possiamo negare che qualche dubbio verso questi nuovi materiali i clienti finali lo abbiano, ma una volta ricevute le giuste garanzie e compresi i benefici ambientali difficilmente tornano indietro e la dicitura ‘bioplastica’ è un plus da non trascurare». Insomma, la strada verso un’industria più ecologica è finalmente tracciata.