How it's made

La risoluzione. Tutta la verità

Una piccola guida per interrompere la spirale di fraintendimenti, incomprensioni ed errori sulla risoluzione delle immagini destinate alla stampa. Finalmente.

Di Lorenzo Capitani | Su PRINTlovers 102

Ma veramente siamo ancora qui a scrivere della risoluzione delle immagini destinate alla stampa quando ormai qualità di scatto, di acquisizione, velocità di rete e spazio di archiviazione non sono più un problema? Qualsiasi dispositivo oggi produce immagini di default molto grandi e di qualità. Eppure ci scappa sempre un’immagine troppo piccola (o troppo grande), presa chissà dove, magari scaricata da Internet, da qualche social, passata via WhatsApp, e finita in qualche pdf per la stampa.
Ma perché la risoluzione delle immagini, che dovrebbe essere uno degli aspetti base del mondo della grafica e della stampa, continua a ingenerare fraintendimenti, incomprensioni ed errori?
La prima ragione di questa confusione va ricercata, prima che negli aspetti tecnici, in un’incertezza terminologica che non si riesce a eliminare e che crea ambiguità e propaga all’infinito pericolose semplificazioni. Prima tra tutte il concetto di alta e bassa risoluzione: alta o bassa rispetto a cosa? Se non vogliamo mettere l’unità di misura, almeno un termine di paragone. E non si dica che alta e bassa per antonomasia si riferiscono ai fatidici 300 e 72 DPI. Nulla di più sbagliato: anche se si continua a dire (e pensare così). Proviamo fare chiarezza una volta per tutte.

Pixel per Inch
Partiamo dai DPI. Il mantra ricorrente è che le immagini per la stampa devono essere a 300 DPI, cioè 300 punti per pollice (Dots Per Inch) ovvero 300 punti di inchiostro (o di toner) per pollice. Ma noi forniamo file e i file non si misurano in punti di inchiostro. Come scrive Marco Olivotto nel suo ottimo libro Capire il colore, è come dire “un secchio d’acqua con la capacità di 10 ampere: la capacità si misura in litri, centimetri cubi o in altre unità di misura adatte allo scopo, ma non utilizzando l’unità di misura della corrente elettrica. I DPI sono riferiti ai sistemi di stampa a getto d’inchiostro o laser, e non hanno nulla a che vedere con l’immagine di per sé. Sono una caratteristica della stampante: quindi, lasciamoli dove devono stare”. Più correttamente dovremmo parlare di PPI ovvero Pixel Per Pollice. Certo che i PPI diventano DPI quando si stampa in offset o in digitale, ma questo è frutto di una trasformazione a valle che non è di nostra competenza, le cui conseguenze però dipendono dalla risoluzione delle immagini che abbiamo fornito. A complicare le cose poi ci si mette una terza unità di misura, gli LPI o Lines Per Inch che misurano le linee di un retino tipografico: quante più linee ci sono in un pollice, tanto più fine sarà la riproduzione in stampa. Esistono diverse lineature in base alla tecnica di stampa: basti sapere che più alta è la lineatura più alta è la qualità di stampa. Ma anche in questo caso possiamo pure dimenticarci della lineatura ai fini della fornitura delle immagini.
Riassumendo, PPI, DPI e LPI, tutte e tre le unità di misura rappresentano la densità lineari per pollice, ovvero quanti “oggetti” troviamo in un pollice che equivale a 2,54 cm.
A noi interessano solo i PPI. Non a caso in Photoshop le dimensioni delle immagini sono misurate in pixel per pollice e non in dots.

Risoluzione fisica
Se però guardiamo attentamente la tabella ci accorgiamo che tutte e tre le unità misurano oggetti fisici, che esistono nella realtà (pixel di un monitor, punti di inchiostro, linee per pollice), mentre i pixel di un’immagine digitale non sono un oggetto, ma una tabella di numeri priva di dimensioni fisiche. Eppure in entrambi i casi si misura in PPI e si parla di risoluzione. Quindi, le due situazioni andrebbero distinte chiamando risoluzione nominale la risoluzione di un’immagine digitale (quante righe e quante colonne ha la tabella del file dell’immagine) e risoluzione fisica la risoluzione della sua corrispondente fisica riprodotta da monitor o in stampa.3
Per capire la differenza Marco Olivotto propone un piccolo esperimento. Aprite un’immagine qualsiasi in Photoshop (es. Dimensioni 2127 x 2717 pixel con Larghezza 18 cm x Altezza 23 cm a 300 PPI) e andate al comando Immagine/Dimensione immagine; qui togliete la spunta a Ricampiona e digitate 1 nel campo Risoluzione: i valori di Larghezza e Altezza cambiano (diventando 5400 x 6900 cm), ma le dimensioni in pixel restano invariate. A questo punto, salvarte l’immagine a 1 PPI come copia e chiudetela. Riaprendo entrambe le immagini, quella originale e la copia salvata a 1 PPI, notiamo che esse risultano identiche, nessuna differenza.4
Questo perché la risoluzione nominale (2127 x 2717 pixel) altro non è che un metadato, un’informazione a corredo dell’immagine alla stregua della data e dell’ora di scatto: ci dice solo qual è la dimensione dell’immagine digitale in pixel. Utile, ma non influisce sull’aspetto di ciò che vediamo. Perché allora specificare la risoluzione nominale? Perché un’immagine digitale deve essere rappresentata per essere visibile e per rappresentarla serve un mezzo, un monitor o un foglio di carta, che ha una sua risoluzione fisica espressa in PPI. L’immagine dell’esperimento su un monitor a 96 PPI misura 56,25 x 71,89 cm, ovvero 18 x 23 cm a 300 PPI.

Risoluzione di output
Ma allora perché si usa la risoluzione nominale, e soprattutto quando entra in gioco, visto che altro non è che un fattore di conversione che non ha nulla a che vedere con la qualità dell’immagine? Ad esempio, in lnDesign, quando creiamo un documento specifichiamo le dimensioni fisiche (es. 21 x 29,7 cm), ma quando importiamo un’immagine le sue misure vengono prese dalla sua risoluzione nominale. lnDesign nel pannello Collegamenti chiama queste misure Dimensioni, come Photoshop, e la risoluzione nominale Originale (PPI). Se ridimensioniamo l’immagine, le Dimensioni e la risoluzione Originale restano invariate, mentre cambia quello che lnDesign chiama Risultante (PPI) e che rappresenta la risoluzione che quell’immagine avrà in uscita, ovvero la risoluzione di output, che è l’unico parametro che ci interessa per la stampa.
Scrive ancora Olivotto che un dato quasi universalmente noto è che “le immagini per la stampa vanno preparate a 300 PPI di risoluzione nominale. Non è vero: l’affermazione giusta (almeno in parte) è semmai che le immagini dovrebbero avere 300 PPI di risoluzione di output quando vengono stampate”. E non è una differenza da poco. Vediamo ora perché.

Dimensione di stampa
Comunemente consideriamo un’immagine in alta risoluzione quando ha una risoluzione prossima ai 300 PPI e in bassa quando è a 72 PPI. Ma cosa succede se stampiamo la stessa immagine a 300 e a 72 PPI? Potrebbero essere identiche, quella a 300 PPI potrebbe apparire nitida e quella a 72 no, o viceversa. Dipende tutto dalla dimensione di stampa, ovvero dalla dimensione che l’immagine avrà quando verrà stampata: da questo dipende la risoluzione di output, non dalla risoluzione nominale.
Prendiamo un’immagine 706 x 334 pixel con Larghezza 25 cm x Altezza 12 cm a 72 PPI6: potrebbe essere una bassa risoluzione tanto quanto un’alta, tutto dipende, infatti, dalla dimensione che avrà in stampa. I 72 PPI da soli non dicono nulla. Se per esempio la porto a 300 PPI, la risoluzione nominale resterà identica, ma le dimensioni diventeranno 6 x 3 cm.7 Se la impagino al 100%, la stampa sarà nitida, ma se la impagino al 200% avrà misure 12 x 6 cm e la risoluzione di output si dimezzerà scendendo a 150 PPI e si vedranno difetti e artefatti.

Riassumendo, va considerata solo la risoluzione di output in funzione delle dimensioni che un’immagine avrà quando verrà stampata. Ma se non ho Photoshop a portata di mano per fare le conversioni, come posso sapere quanto misurerà un’immagine a 72 PPI quando la porterò a 300 PPI? È sufficiente guardare la Larghezza e l’Altezza che l’immagine ha a 72 PPI e dividere per 3. Quelle sono all’incirca le dimensioni al 100% che avrà l’immagine stampata. Se la impagino più grande perderò progressivamente di qualità, se la riduco non avrò problemi. Se infatti avessi un’immagine 21 x 10 cm a 72 PPI destinata a essere stampata, potrò impaginarla ragionevolmente in formato 7 x 3 cm, senza perdere in qualità. Risulta evidente che i fatidici 72 PPI non sono una bassa risoluzione a priori. Già, ma se non sono io a impaginare, come faccio a sapere se la mia immagine andrà bene per la stampa? La risposta sta nella regola dei 300 PPI che non è affatto campata per aria. Se pensiamo ai formati standard di uno stampato ideale in cui sia richiesta una qualità buona di stampa, normalmente sono prossimi all’A4 e la distanza dalla quale li si osserva è compresa tra 1,5 e 2 volte la diagonale del foglio. Ora, un A4 ha una diagonale di circa 36 cm e lo si osserva da una distanza dai 54 ai 72 cm: se lo avviciniamo ne vediamo solo una parte, se lo allontaniamo facciamo fatica a leggere.

Distanza di visualizzazione
Esiste una formula empirica che ci consente di calcolare la risoluzione di output minima in PPI conoscendo la distanza di visualizzazione in centimetri:
PPI = 8,733 / distanza di visualizzazione (in cm)
Se calcoliamo la media tra le due distanze limite indicate (54 e 72 cm) per un formato A4, otteniamo circa 60 cm, che portato nella nostra formula ci dà:
8,733/60 = 146 PPI
300 PPI sono più del doppio, quindi abbiamo un margine molto ampio: in questo caso basterebbe una risoluzione di output ben inferiore ai 300 PPI per ottenere una buona stampa. Se però dimezziamo l’A4, un foglio A5 ha diagonale 25,8 cm e lo si osserva da una distanza di circa 40 cm (1,5 x 25,8 = 38,7 cm), applicando la formula precedente otteniamo 8,733 / 40 = 349,5 PPI: con 300 PPI siamo sotto questo limite. Sembra un paradosso, ma una stampa richiede una risoluzione di output tanto maggiore quanto più è piccola. Se osserviamo invece un manifesto 3 x 6 m che ragionevolmente verrà visto da 10 m di distanza, la formula dà una risoluzione di output di 8,733/1000 = 9 PPI, arrotondando con 20 PPI saremo a posto con la stampa. Non a caso il retino di stampa di un manifesto si vede a occhio nudo quando ci si avvicina, quello di un magazine, invece, richiede un lentino. Concludendo, è impossibile stabilire una risoluzione di output ottimale senza conoscere anche da quale distanza osserveremo la stampa. Si usano i 300 PPI anche perché è una misura funzionale a ottenere una risoluzione di output sufficiente per una stampa di alta qualità (con tutti i distinguo fatti sopra), senza produrre file troppo grandi che potrebbero rallentare i processi di stampa o occupare troppo spazio di archiviazione.
Quindi, la prossima volta guardiamo la risoluzione fisica di un’immagine e da essa ricaviamo la sua risoluzione di output in funzione della sua dimensione di stampa e del tipo di stampato. E, per favore, basta parlare di DPI.

 


14/06/2024


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