Di fianco a vini, birre e spirits stanno avanzando alternative senz’alcool che non rinunciano al gusto e al piacere dell’esperienza. Ma come comunicano questi nuovi prodotti? Quanto sono vicini ai codici degli spirits e quanto invece tracciano una propria strada originale nel packaging design? Ne abbiamo parlato con quattro esperti di comunicazione - Paola Garavaglia e Alessandra Baicchi di Break Design, Luca Riva di Dude, Arturo Vittorioso di H2H - e tre tra i più interessanti brand italiani: Amaro VENTI, Conviv e MeMento.
Di Roberta Ragona | Su PRINTlovers 96
Dai momenti importanti della vita all’agognato relax del fine settimana, le occasioni di socialità e celebrazione sono associate all’idea del bere in compagnia. Negli ultimi anni a vino, birra e spirits si stanno aggiungendo opzioni senz’alcool. Da una parte incide un cambiamento di abitudini, per cui anche chi normalmente apprezza gli alcolici può desiderare un’alternativa in alcune circostanze, come mantenere la concentrazione durante un pranzo di lavoro o ridurre l’apporto di alcool dopo momenti particolarmente goderecci (è il caso del Dry January, un mese senza alcool dopo le feste invernali). Dall’altra c’è un cambio di passo generazionale: la cosiddetta Gen Z beve in media il 20% di alcool in meno a testa rispetto ai Millennial – dati Berenberg Research – i quali a loro volta appartengono a una generazione molto più morigerata rispetto a Gen X e Baby Boomers. E non da ultimo un’offerta di mixology e ristorazione di alta gamma che vuole andare incontro a un pubblico che può astenersi dal consumo di alcolici per ragioni culturali, di salute o di contesto, senza rinunciare al gusto. Il mercato è in fase esplosiva: secondo una rilevazione tra il 2021 e il 2022 sono stati lanciati nel solo mercato americano 72 nuovi marchi di prodotti alcohol free, e la richiesta di bevande no o low-alcohol è cresciuta del 60% tra luglio 2020 e luglio 2021. Il volume del settore è stimato in 11 miliardi di dollari ed è in crescita a doppia cifra. E in Italia? Se la produzione e il consumo di alcolici è un fatto culturale, dall’altra c’è una tradizione di bevande da aperitivo analcoliche altrettanto lunga e trasversale.
Il primo scoglio di questo nuovo mercato è sia lessicale che normativo, come spiega Paola Garavaglia, Managing Partner e Co-Owner Break Design: «Dal punto di vista legislativo vengono considerate non alcoliche le bevande che contengono meno dello 0.5% ABV (alcohol by volume). Tra i no e low-alcohol si trovano sia prodotti realizzati tramite dealcolizzazione che no-alcohol nativi. È una nicchia enormemente polverizzata che comprende l’equivalente analcolico di tutti gli alcolici, birra, vino e superalcolici, i white, i brown, i bitter. In mancanza di un quadro comune ogni categoria ha seguito una sua logica, ad esempio i vini e le birre hanno adottato la dicitura “zero” secondo l’esempio dei soft drink senza zucchero, ma si parla anche di imitation spirits, near-beers, distillati senz’alcool».
Nel caso di MeMento, brand fondato da Eugenio Muraro, la scelta è stata di partire come prodotto nativo alcohol free: «MeMento è un distillato analcolico ottenuto tramite corrente di vapore, senza alcool in nessuna fase della lavorazione. I nostri clienti sono principalmente cocktail bar, ristoranti e hôtellerie di alto livello, la cui clientela chiede sempre di più delle opzioni alternative agli alcolici all’altezza dell’esperienza complessiva».
E proprio il B2B è la prima audience a cui si rivolge la comunicazione, sottolinea Luca Riva, Creative Director di Dude: «Il primo pubblico da convincere non è il consumatore finale ma baristi e mixologist, e questo si riflette su scelte di comunicazione e design di prodotto. Normalmente i prodotti non alcolici hanno il loro spazio sotto il bancone, tra gli ingredienti. Adesso invece tendono a entrare di diritto tra i prodotti customer-facing ed essere esposti in bottigliera tanto quanto gli alcolici. La “bottigliabilità” guida le scelte estetiche».
Ancora prima dei bartender, c’è un intermediario fondamentale che deve essere in grado di raccontare il prodotto, fa notare Lorenzo Cinelli, founder con Mattia Vita di Conviv: «Elevare il momento di consumo del drink analcolico è un concetto che va spiegato per prima cosa ai distributori. Un po’ come succede con i libri, sono la prima linea che si trova a raccontare un prodotto nuovo. Devono poterlo spiegare ai responsabili acquisto dei locali, far capire loro che può rispondere a una richiesta. Abbiamo cercato di tradurre nel packaging il lavoro dell’ingredientistica: è un punto su cui ci siamo concentrati a lungo con Spider, l’agenzia che ci ha supportato nello sviluppo, cercando di lavorare con le associazioni che sono già nella mente delle persone, come il rosso del bitter, che è il color rubino classico associato all’aperitivo all’italiana. Il nostro prodotto è realizzato con infusione a freddo per 30 giorni e materie prime lavorate a mano».
Questi differenti pubblici – distributori, bartender, consumatori – si riverberano sulle scelte dei materiali, come racconta Alessandra Baicchi, Account di Break Design: «Dal punto di vista dei supporti il vetro è protagonista, con pesi vetro vs alluminio completamente rovesciati rispetto all’area dei soft drink non alcolici. La differenziazione sarà dettata anche dalla fascia d’età del target, con le lattine per i prodotti ready to drink per i giovani, e il vetro che parla a un target più adulto. Ma in un target giovane non è già radicata l’associazione mentale tra vetro e prodotto premium, per cui c’è margine di sperimentazione su supporti più versatili. Nel loro caso i prodotti con cui si va in competizione non è tanto lo sharing della bottiglia da seduti, tipico degli adulti, ma il consumo individuale on the go e l’abitudine a bevande che non erano nei consumi delle generazioni precedenti, come le miscele a base di caffè da asporto o il bubble tea».
Ma i formati RTD non sono solo appannaggio dei più giovani, come dimostra il caso di MeMento: «Il nostro prodotto è stato scelto da NIO, la start up che offre cocktail artigianali a domicilio, come base per i suoi 4 cocktail senza alcol. La versione RTD in dose singola viene considerata un entry point per chi vuole esplorare il mondo dei drink non-alcolici senza avere a disposizione la varietà di ingredienti ed essenze del bancone di un bar».
Nel pubblico adulto, invece, il patrimonio di codici già assimilati dal consumatore è cardinale per orientare la comunicazione. Continua Paola Garavaglia: «Il design delle alternative analcoliche tende a rifuggire dalle nobilitazioni oro e dalla lamina: associazioni di colore e materiale come lo stile oro e nero sono ancora troppo associate al vino. Si va più verso uno stile vibrante e floreale: un esempio è la gamma lanciata da Martini. Scelte di colore come i verdoni inglesi e i burgundy richiamano troppo gli alcolici heritage, quindi si va invece verso colori inusuali per il settore come la gamma pastello e accenti pop con l’uso dei colori fluo. Si cerca un’esperienza multisensoriale, lasciando il compito a rilievi, texture, elementi tattili e contrasti lucido/opaco di trasmettere il senso di premiumness. Nel caso dei distillati, invece, in cui il primo pubblico sono i bartender, il trend è la mimesi. Ci si rifà allo stile della produzione di nicchia da distilleria artigianale, in particolare al linguaggio dei modern gin, con grande uso delle trasparenze, tanta serigrafia e tagli cartotecnici sulle etichette che valorizzano il liquido all’interno».
Il packaging MeMento conferma questo tipo di iconografia: «L’etichetta è double face e fustellata con cinque strisce verticali che rappresentano il logo MeMento e richiamano i cinque sensi e le cinque essenze che compongono la bevanda, ognuna distillata separatamente. Attraverso queste cinque fustellature si intravede sul retro dell’etichetta un paesaggio mediterraneo, caratterizzato da un diverso colore per ognuna della nostre miscele. Utilizziamo un’etichetta monomateriale in carta certificata FSC, bottiglia in vetro, tappo serigrafato e fondo in legno. Il grip tra tappo e bottiglia è in plastica, per il momento è ancora la soluzione migliore per assicurare l’integrità del prodotto, soprattutto per l’esportazione: le bottiglie devono affrontare viaggi di lunga durata verso mercati come gli Stati Uniti e l’Australia. Ancora più importante, non essendoci l’alcool in funzione conservante, per cui utilizziamo gli stessi standard di sicurezza delle bevande alimentari».
Nel caso di Amaro VENTI invece si tratta di proseguire attraverso un’opzione analcolica un discorso di profilo di sapore iniziato con tre distillati alcolici, il Gin RIVO, lo Sloe Gin e l’Amaro VENTI alcolico. Ci spiega Marco Rivolta, founder di Magi Spirits: «Amaro VENTI si rifà all’esperienza della tradizione italiana di vermut e liquoristica, con l’uso di essenze botaniche raccolte esclusivamente nella penisola. In Italia abbiamo una tradizione di amari locali ma nessun prodotto che in qualche modo “unisse l’Italia” attraverso le diverse essenze. VENTI fa uso di venti botaniche – una ispirata da ogni regione italiana – e parte dall’idea di dare al consumatore la scelta di bere un prodotto con o senza alcol mantenendo intatta la ricettazione e gli equilibri di sapore. L’idea quindi è di offrire un’esperienza di gusto inalterata, da modulare in base alle circostanze e al momento. Questo principio si riverbera anche sulle scelte di packaging, in dialogo l’uno con l’altro. Condividono alcuni elementi come le venti linee che compongono il logo, e richiami giocosi a una tradizione quasi alchemica, simboleggiata dalle manine e il mortaio con gli ingredienti e dal motto del cartiglio Edamus, Bibeamus, Godeamus. Nel settore dei liquori senz’alcool abbiamo molta libertà perché non ci sono ancora abitudini codificate, dallo stampo della bottiglia, alla forma dell’etichetta, ai codici colore. C’è spazio per innovare».
Secondo Arturo Vittorioso, Executive Creative Director di H2H, al momento i brand stanno provando entrambe le direzioni: «Ci troviamo in una fase in cui troviamo esempi di entrambe le tendenze: da una parte riproposizioni di alcolici famosi in versione no alcool, puntando sulla fedeltà di marca e la rassicurazione sulla qualità del prodotto che deriva dalla storia del brand. Dall’altra prodotti no-alcohol gestiti da grandi gruppi che comunicano però come se fossero brand nativi, con codici di comunicazione e scelte iconografiche che puntano a smarcarsi e a cercare di posizionarsi come una cosa a parte rispetto al gruppo industriale di provenienza».
Convinti i mixologist, ci si rivolge ai consumatori, nota Vittorioso: «Credo che questo tipo di prodotti faccia parte di un movimento di mercato più ampio, una proposta che si rivolge a nicchie altamente targettizzate con un’offerta specifica. Ne fa parte la recente attenzione per il bio o le alternative vegetariane e vegane alle proteine animali. Nell’ambito della birra questa attenzione è partita anche da brewery artigianali che hanno filosofie molto radicali e hanno aggiunto al loro portfolio prodotti alcohol free per raggiungere un pubblico che non beve alcool ma che può essere interessato a profili di sapore complessi. Dal punto di vista della comunicazione significa realizzare progetti di packaging che comunichino il senso di scelta non come privazione ma come decisione consapevole. Un esempio è la comunicazione degli “alcolici senz’alcool” come bevande adatte agli sportivi, per cui si sottolinea l’aspetto della gratificazione senza l’appesantimento come parte di uno stile di vita sano».
Un prodotto nuovo deve costruire intorno a sé un intero ecosistema di comunicazione stampata tutto da progettare, che va dai materiali accessori agli allestimenti, racconta Marco Rivolta: «La novità di un prodotto significa anche che le esperienze di consumo sono in un certo senso tutte da inventare, per cui lavoriamo molto anche sul fronte degli eventi di degustazione, delle guide di mixology, la creazione di una rete di locali specializzati. Questo genererà anche una ricaduta su tutti i prodotti accessori che verranno interessati dallo stesso mutamento comunicativo: le basi, i mixer, i succhi premium, i cosiddetti hero ingredients».
Concorda Lorenzo Cinelli: «Nella nostra offerta abbiamo inserito anche una box, che riprende il design delle label con verniciatura in rilievo. La box contiene il prodotto, due bicchieri e una tonica selezionata per l’abbinamento. Funziona sia come “educazione al gusto” dei clienti, suggerendo un abbinamento e una ricetta, sia lavorando sull’idea che questo è un prodotto raffinato che può essere regalato tanto quanto una buona bottiglia alcolica. Abbiamo anche realizzato una serie di playlist su Spotify per il momento di consumo, perché il momento dell’aperitivo è fatto tanto dal prodotto che dall’esperienza».
Luca Riva prevede che le mosse più importanti in ambito adv arriverà con l’ingresso dei grandi gruppi: «Al momento i grandi gruppi stanno facendo acquisizioni e soft launch, ma probabilmente nel prossimo anno vedremo dei lanci interessanti anche attraverso investimenti in adv e campagne. Ma non solo, probabilmente diventeranno sempre più frequenti azioni di comunicazione comuni con i brand di soft drink di nicchia, come la spuma, la cedrata o i bitter, prodotti che non hanno mai lasciato i banconi dei bar della provincia italiana e che sono già parte di un grande fenomeno di riscoperta».
Ma il player che cambierà la faccia del mercato probabilmente è un altro ancora secondo Paola Garavaglia: «Il segnale più importante per il futuro è il fatto che la grande distribuzione si sta accorgendo di questo fenomeno, e si sta attrezzando per rispondere con una propria offerta. Mentre per i corrispettivi alcolici c’è un heritage di brand molto forte, nel caso di questo mercato per le private label è possibile entrare da protagoniste: ci si trova virtualmente ad armi pari, perché è un settore in cui il consumatore non ha il benchmark delle grandi marche. Lo stiamo vedendo già succedere nel settore del vino, ad esempio con lo spumante Riesling “Virgola Zero” Alcol Free entrato di recente nell’assortimento di Esselunga».