Trasmettere un senso di naturalezza. È questa oggi l’esigenza più sentita nella food photography, soprattutto quando gli scatti in questione sono stampati sulle confezioni destinate al punto vendita. Ma quali sono i segreti – tecnici e artistici – di quelle immagini così gustose, che accendono il desiderio, dalle quali sembra che si sprigionino profumi e sapori? Ce ne parla Luisa Valieri, food photographer tra le più note, fondatrice dello studio Pesce Giallo di Milano, che lavora per grandi aziende alimentari, da Autogrill a Barilla, da Bolton a Vallè.
Di Michela Pibiri | Su PRINT 75
Al piano terra di un elegante palazzo storico in Foro Buonaparte 69, a Milano, c’è Pesce Giallo, un microcosmo a metà strada tra uno studio fotografico e la cucina – attrezzatissima – di un grande chef. Arriviamo la mattina presto per incontrare Luisa Valieri, milanese nata nel 1958 che lavora dai primi anni Ottanta per grandi aziende alimentari italiane e internazionali, realizzando scatti per campagne istituzionali e packaging. Dalla sua prima campagna stampa per Ferrarelle, a ventun anni, alla collaborazione con Algida durata quindici anni per la comunicazione globale, passando per marche come Buitoni, Bauli, Ferrero, Leffe, Pago, Pernigotti, San Carlo, fino ai principali clienti attuali: Barilla con Mulino Bianco e il progetto Cucina Barilla curato da Robilant Associati, Bolton col marchio RioMare, Chiquita, Vallè, Kellogg’s, Autogrill, ma anche i contenitori per alimenti Snips e la catena di ristoranti VyTA. Oggi Luisa lavora in squadra fissa con la set designer Erica Picco e con professionisti della postproduzione come Matteo Tranchellini, esperto di tecniche di stampa. E poiché quello del food è un mondo che si muove in fretta, anche con videomaker come Marco Waldis e Lorenzo Gorini.
Dallo studio della marca alla stampa, quali sono le fasi di realizzazione di una foto di food? Possiamo dire che dietro ci sia una vera e propria filiera?
Solitamente lavoro tramite agenzia di pubblicità e packaging, ma ho anche clienti per cui lavoro direttamente. Il mio lavoro interessa figure fondamentali come il food stylist e il postproduttore. Il food stylist di norma lo coinvolgo io, ma ci sono anche delle aziende che hanno il loro riferimento: è il caso di Paolo Sassi per Bolton e di Francesca Alberoni per Barilla. Loro sono in piena sintonia col prodotto: questo per l’azienda è importantissimo. I food stylist vengono qui, nel mio studio con cucina, e si innesca un lavoro di squadra: loro preparano un prodotto di prova, io imposto le luci e poi ci accordiamo su aspetti come la consistenza o il colore. Poi viene la composizione, di cui si occupa il food stylist; io devo rendere al meglio il loro lavoro e loro devono sistemare la composizione sulla base della resa a monitor: vuoti, pieni, colori etc. Questo si può dire sia il cuore del lavoro vero e proprio.
Quali accorgimenti richiedono la composizione e lo scatto?
La fotografia del cibo richiede una grande competenza tecnica. Per introdurre questo concetto, quando mi capita di tenere corsi di fotografia, spiego che quando ci si siede a tavola e si ha fame sembra tutto bello: oltre alla vista c’è l’olfatto, che contribuisce a far sentire il sapore, perché nell’esperienza del cibo il profumo svolge un ruolo fondamentale. E poi c’è il rumore, a cui uno non pensa mai, ma c’è: il rumore delle posate che avvolgono gli spaghetti, o quello del pane che si spezza. In una foto tutto questo non c’è, e non c’è nemmeno la tridimensionalità. Bisogna sopperire con piccoli accorgimenti senza snaturare il piatto. Per esempio, comporre un piatto di spaghetti è difficilissimo. Il food stylist li scola molto al dente, li raffredda immediatamente e fa una composizione in cui crea l’effetto disordinato-ordinato naturale. In linea di massima i food stylist usano meno trucchi di quanto si possa immaginare: quando si dice che le cose che si fotografano non si mangiano è solo perché sono state cotte poco, o non sono salate, o perché banalmente sono state toccate da tutti.
Quanto è importante la postproduzione, soprattutto per l'immagine che verrà stampata, e come viene gestita?
La postproduzione in linea di massima la gestisco io in un’ottica di filiera. Tra i professionisti con cui lavoro c'è Matteo Tranchellini, che ha un passato nel fotolito e conosce tutti i processi di stampa. In più ama cucinare e quindi conosce molto bene gli ingredienti e ha cura dei dettagli: non potrei lavorare con un postproduttore che non conosce il timo e fa le foglioline del colore del basilico, è un lavoro che richiede delicatezza! La foto non basta: è fondamentale chi arriva dopo – il postproduttore – e chi arriva dopo ancora, lo stampatore. E io mi preoccupo molto di cosa succederà poi con la stampa, perché il supporto di destinazione (metallo, carta, plastica) influisce sulla resa finale e dunque sulle le scelte che si fanno sia in fase di scatto che di postproduzione. Anche se non intervengo al momento della stampa vado sempre a vedere il risultato finale, che si tratti di un packaging, di un catalogo o di una pagina pubblicitaria.
A ogni cibo il suo stile?
La cosa più importante, quando si comincia un lavoro, è sapere a cosa serve e dove va la foto. Racconto due casi molto diversi tra loro. Per Chiquita ho realizzato, oltre alle foto dei prodotti per il catalogo, un lavoro che avesse una lettura facile e colorata destinato a diversi canali: materiale per i venditori, allestimento dei punti vendita, sito e social. Quindi io e la mia set designer Erica Picco abbiamo realizzato delle composizioni per suggerire modalità di consumo del prodotto, e il risultato finale è molto pop. Per Pernigotti invece ho fotografato i cioccolatini come fossero gioielli. Le foto sono state stampate sui pannelli di un evento di presentazione del nuovo packaging. Il focus non era sul consumo, ma sulla preziosità dell'oggetto, con fondi oro e composizioni geometriche.
Come si struttura oggi il mercato della food photography?
Ora lavoro sempre più per il packaging. La richiesta di fotografia per campagne stampa – affissioni e pagine pubblicitarie sulle riviste – è calata, e con il boom dei social la comunicazione si è fatta molto più dinamica. Di sicuro la grande tendenza comunicativa del momento è il video, cui le aziende affidano il racconto della marca su diversi canali: web, fiere internazionali, eventi ad hoc – su cui le aziende puntano moltissimo – e allestimenti dei punti vendita. Anche io lavoro col video per clienti come Cucina Barilla, Pernigotti e VyTA, in collaborazione con videomaker come Marco Waldis e Lorenzo Gorini: io metto il mio sapere nell'ambito del food e loro mettono sceneggiatura e regia. Il mestiere si evolve costantemente perché oggi la comunicazione si esaurisce in fretta: ho l’impressione che dopo il boom dei social molte aziende stiano ragionando sul modo di evolvere ulteriormente il loro linguaggio.
Quali regole seguono le foto create per il packaging?
Se in generale la foto di food è molto tecnica, la foto di packaging è estremamente complessa: bisogna trasmettere molto in uno spazio ridotto, raccontando al meglio il prodotto e rispettando dei canoni. Ci sono prodotti più fotogenici di altri, alcuni sono ingredienti e ha dunque senso fotografare i piatti che si possono preparare, dando più suggerimenti di presentazione o creando abbinamenti, o, in altri casi, come per i sughi, scegliendo gli aspetti più iconici degli ingredienti: le foglie di basilico, per esempio.
Qual è la tendenza del momento nella rappresentazione di food sul packaging?
La naturalezza, indubbiamente. Anni fa non c’era l’esigenza di rispettare il prodotto all’interno della confezione, c’era l’idea di presentarlo bene, e l’overpromising non era un problema. Poi alcune aziende hanno cominciato a mettersi in discussione ed è stato fatto un gran lavoro, stimolato anche dalle associazioni di consumatori. Ora c'è una grandissima attenzione a quello che si mette sulle confezioni. Il prodotto deve essere delle dimensioni giuste, non si mostrano ingredienti che non ci sono realmente, e quando si fa una presentazione un po’ elaborata si indica che si tratta di un suggerimento. Se da una parte c'è molto più rispetto verso il consumatore, dall'altra i prodotti stessi sono cambiati: sono diminuite le quantità di cibo nel piatto, si cerca di mangiare più sano e meno grasso, perché è cambiata la società, la cultura e l’economia e questi aspetti si riflettono sul packaging. La naturalezza, insomma, è un criterio che riguarda sia la forma sia il contenuto. Il prodotto deve essere ben presentato ma coerente con la realtà: tutto il mio lavoro sul packaging si basa sul comprendere insieme all’azienda fin dove si può arrivare.
Luisa Valieri, tra cibo e fotografia.
Passioni he sono diventate il suo percorso di vita. Come è cominciato tutto? Il primo evento, rievoca, “è che fin da bambina ho mangiato pane e carta”. Luisa è figlia di Giuseppe Valieri, illustratore e grafico, che fu tra i fondatori dell’Art Directors Club Italiano e de Il Giorno, quotidiano di grande innovazione, primo giornale in Italia a usare la rotocalcografia a colori e l’impaginazione a otto colonne. Da qui, come esperienza familiare, nasce la passione per le immagini. A 12 anni riceve la prima Polaroid e dopo il liceo artistico va a bottega da Christopher Broadbent, già famoso come fotografo e regista pubblicitario di punta. Cruciale per la sua carriera è stata però la passione per la cucina, la conoscenza degli ingredienti, la capacità di relazionarsi nella maniera giusta con i food stylist.