Quella di Giulia Revolo, fashion stylist, è unaprofessione che esige uno sguardo sempre aggiornato sul mondo e sulla comunicazione. Perché chi veste, letteralmente, gli attori e i modelli allo scopo di dare il giusto tono alla campagna non può non essere sempre al passo, o in aperta rottura, con le ultime tendenze. “Soprattutto quelle del mondo street e pop” ci spiega Giulia. E precisa: “Pop inteso nel senso di popolare”.
Di Michela Pibiri | Su PRINT 78
Eclettismo stilistico, sincretismo culturale. Sono le due definizioni che vengono in mente quando si incontra il mondo di Giulia Revolo, giovane stylist e creative director che offre uno sguardo aggiornatissimo sulla comunicazione dei brand, sempre più fluido, ricco di contaminazioni tra discipline e strumenti espressivi, dove il confine tra fotografia e video sfuma anche in virtù dell’instagrammabilità. Una dimensione, la sua, in cui si mescolano teatro e moda, cinema e pubblicità, lusso e mass market e, per nascita e formazione, culture diverse: l’America Latina, l’Oriente, l’Australia e un’italianità fatta di sintesi, equilibrio ed eleganza. Un immaginario da viaggiatrice cui attinge per esprimere la sua personale e riconoscibile cifra stilistica.
Dopo un percorso che ti ha portato dai costumi teatrali al fashion styling, lavori non solo nella moda in senso stretto, ma anche nel music video e in pubblicità. Cosa ti chiede questo mercato?
È vero, il mio è stato un percorso un po’ atipico: volevo fare la costumista teatrale e mi sono laureata in Costume & set design per il cinema e il teatro, poi ho studiato fashion design e infine, grazie alle prime collaborazioni per shooting fotografici e videoclip musicali – il primo è stato “Turbo” di Cosmo, girato da Jacopo Farina – ho individuato la mia strada e fatto di questa formazione insolita, della mia visione artistica e del mio approccio istintivo il punto di forza che i miei clienti apprezzano. Oggi, oltre agli editorial per riviste internazionali, lavoro con le principali case di produzione di Milano per la parte video, soprattutto musicali, e per i commercial. Per le case di produzione è importantissimo avere una visione diversa da quella che potrebbe dare uno stylist commerciale: sempre più la pubblicità cerca una contaminazione tra linguaggi diversi, e il mass market – pur con restrizioni molto precise – cerca riferimenti fortissimi nel mondo della moda. Si tratta di un cambio d’immagine importante: anche un cliente come McDonald’s per gli attori chiede diverse opzioni di look, colori particolari, abbinamenti sempre in linea con le ultime tendenze. E lo stesso vale per il music video: Cosmo, per esempio, era vestito Vivienne Westwood.
Qual è il processo creativo dello styling?
Il primo passo è la ricerca di immagini. Il cliente presenta il progetto e io sviluppo uno studio visivo, spesso filologico se la campagna o l’editoriale hanno un’ambientazione storica precisa. Poi realizzo il moodboard. Quello commerciale deve essere molto chiaro e preciso, perché gli interlocutori sono responsabili marketing che necessitano di elementi definiti fin dall’inizio. Il moodboard per gli editoriali di moda permette maggiore libertà espressiva: lo suddivido in diverse tavole, partendo da una prima parte “sensoriale”, per poi definire set design, make up, hair. Un moodboard ben strutturato è parte fondamentale del lavoro: ci sono infatti ottime possibilità che il cliente lo accetti subito. A moodboard approvato si procede con la ricerca dei capi: possono essere comprati o noleggiati, oppure attingo al mio archivio personale – nel mio studio ho una stanza che contiene solo abiti e accessori acquisiti nel tempo – oppure, ancora, stringo accordi con gli showroom. La fase successiva è quella del fitting. Nell’editoriale di moda è molto rapida, visto che i protagonisti sono modelli con misure standard; nei commercial di solito sono richiesti degli aggiustamenti. Poi rimango sul set per tutta la durata del servizio, insieme alle mie assistenti che si occupano di stirare i capi, sistemarli sugli stand, vestire gli attori e i modelli, e, dopo lo shooting, si occupano della gestione dei resi. Quando lavoro per la realizzazione di lookbook creo gli abbinamenti tra i capi e gli accessori e spesso collaboro con gli stylist interni alle aziende che danno le linee guida. Quando invece lavoro sugli editoriali, la parte più impegnativa del lavoro è la ricerca e il contatto con i brand con le lettere di commissione delle riviste per la concessione dei capi. Nel mio lavoro sulla carta stampata internazionale porto la mia collaborazione con brand come Prada, Moschino, Ferragamo, La Perla, Gucci, Chloé, Vivienne Westwood o con designer più di nicchia, che amo molto, come Dilara Findikoglu o Ritual Project.
Quali sono gli equilibri sul set tra stylist e fotografo o regista?
Sono necessarie, sempre, una buona intesa e collaborazione. Generalmente l’idea creativa si sviluppa insieme, o comunque allo stylist viene chiesto di interpretare il trattamento del regista o il moodboard del fotografo: maggiore è la fiducia reciproca maggiore sarà la possibilità, per lo stylist, di interpretare liberamente il progetto. E in molti casi si instaurano rapporti preziosi che vanno avanti nel tempo.
Quali sono le tendenze più attuali in fatto di scelta e abbinamento dei capi e degli accessori? Le scelte degli stylist possono influenzare i brand?
Se prima le tendenze venivano lanciate dalle icone della moda e dalle passerelle, ora si fa sempre più riferimento al mondo “street” e “pop”, proprio nel senso di “popolare”. È un cambiamento enorme: si guardano le sottoculture interne a ogni società, c’è molta mescolanza e accessori o capi che prima potevano essere considerati “trash” ora diventano la chiave di nuove tendenze. Mi viene in mente Balenciaga con la famosissima stylist di origine russa Lotta Volkova, che, ispirandosi ai look delle fasce più povere della popolazione del periodo post-sovietico, ha lanciato un trend che ha dettato legge in tutto il mondo moda. Vedo l’intenzione esplicita di avvicinare la moda alla gente comune. Come stylist mi ci ritrovo pienamente: mi diverto molto a mescolare capi che possono avere diversi significati estetici, come vestire una modella abbinando pantaloni con un taglio street, un top in stile etnico anni ‘70 e magari un velo in testa con un cappello sopra. Personalmente quando scelgo i capi non bado solo al brand ma cerco sempre di selezionare pezzi che mi permetteranno, in equilibrio tra loro, di ottenere un look forte e comunicativo nell’insieme.
In che modo l’identità multiculturale e le esperienze internazionali influenzano la tua estetica?
Il Sudamerica, e in particolare il Perù di mio padre, è un luogo molto mistico con un forte sincretismo religioso, in cui l’incontro tra cattolicesimo spagnolo e cultura indigena crea risultati visivi molto forti. Porto dentro un’estetica legata alle feste popolari, alla ritualità tribale con i suoi colori e la sua musica. Poi c’è l’Oriente: mio padre vive a Hong Kong da quando ero bambina e conosco benissimo quel mondo, ho sviluppato da subito una fascinazione per i suoi tessuti, i colori, l’oggettistica, e la sua capacità di vivere in equilibrio tra l’identità occidentale e quella profondamente cinese. Da Sydney, che accoglie moltissime culture, ho portato con me il gusto per la contaminazione, e dall’Australia un legame molto profondo con la natura. Ho imparato, lì, a non aver paura di essere diversa. La mia parte italiana, forse, è quella che sta emergendo adesso in una ricerca estetica che, rispetto alla mescolanza del passato, tende più all’essenzialità e alla sintesi: un’eleganza che è un tratto tipicamente italiano.
Quali sono le competenze indispensabili per fare il tuo lavoro?
Ci vuole moltissima determinazione: uno stylist è prestigioso nel momento in cui ha il via libera dai brand per utilizzare i loro abiti, quindi le sue relazioni personali sono il suo patrimonio. Ci sono brand che desiderano avere il controllo assoluto sui canali e sul modo in cui i loro abiti vengono utilizzati. Avere l’ok dai “blindatissimi” è un risultato che si ottiene col tempo, si basa tutto sulla relazione e sulla fiducia. E poi bisogna informarsi e aggiornarsi costantemente, avere un’attitudine spiccata verso la ricerca – anche quella filologica, e questo deriva dalla mia formazione come costumista teatrale – avere flessibilità mentale, praticità e capacità di adattamento, oltre, naturalmente, a gusto e creatività.
Tu lavori sia con la fotografia che con il video. Quanto è importante l’integrazione tra i due mezzi nella comunicazione dei brand?
Credo che non esistano più brand che sviluppano solo materiale fotografico: il video va in parallelo in ogni campagna ed è fondamentale in termini di efficacia e viralità. Anche se la fotografia è un linguaggio ormai comune, va osservata attraverso codici che non sono immediati per tutti. Il video racconta le storie dei brand in modo più comprensibile ed emozionale. E così il lusso, che non ha mai usato il linguaggio della televisione, ha abbracciato il video riferendosi ad altri modelli: il cinema e la videoarte, dando il via un genere a sé, quello del fashion film. L’apripista è stata Prada, quando ha cominciato la sua collaborazione con Wes Anderson producendo i primi cortometraggi. Da allora si è stretto un sodalizio fortissimo tra lusso e autorialità: se prima la moda entrava nel cinema per rafforzare l’identità dei personaggi, adesso è il cinema che entra nella moda per rafforzare l’identità del brand.
Se dico “instagrammabilità”, cosa rispondi?
L’instagrammabilità è un criterio che permea il processo creativo di ciò che si fotografa o si filma. Ogni brief ha i suoi canali privilegiati, ma se prima la moda viveva principalmente su carta, oggi la battaglia tra brand si gioca sul terreno dell’accessibilità: non tutti comprano Vogue, ma tutti guardano Instagram. La sua forza rispetto ad altri social è che unisce la sintesi comunicativa della pura immagine alla facilità nel contatto con le persone che ci interessano. Per me è indispensabile come fonte di ispirazione, come veicolo di comunicazione del mio immaginario visivo e come mezzo per creare relazioni.
Nel tuo lavoro percepisci qualche forma di gender gap oppure credi che la tua generazione stia incontrando un mondo del lavoro più equo?
Non sono intimidita dagli uomini del settore, ma c’è ancora una predominanza maschile nei ruoli chiave, quelli creativi e decisionali, con la tendenza a riconoscere l’autorità maschile innanzitutto. E, senza voler generalizzare, le donne si trovano spesso costrette a dover dimostrare di lavorare a un certo livello perché hanno le competenze per farlo e sanno quello che fanno. Ma le cose stanno cambiando: nella mia generazione c’è molto più equilibrio e forse anche più rispetto. Le premesse sono buone, si va verso un’evoluzione, ma sarebbe bello se le figure di riferimento che ci sono ancora oggi fossero tutte disposte a mettersi a disposizione, in maniera costruttiva, dei giovani che stanno imparando e che prenderanno il loro posto.
Come vedi il futuro della tua professione?
Credo che si prospetti un futuro ricco di opportunità di crescita. Quello dello stylist è un lavoro nuovo che permette di costruirsi una carriera “cucita su se stessi” con le proprie regole. Si possono raggiungere altissimi livelli, soprattutto quando ci si avvicina alla direzione creativa dove non si tratta solo di vestire, ma di creare dei personaggi e delle storie. È una professione che si evolve al passo con i cambiamenti della società e delle persone, ed è per questo motivo che è un lavoro “fresco”, che sì, cavalca l’onda delle tendenze ma a volte va proprio in direzione opposta, dettando nuove regole.
Giulia Revolo
Nata Milano nel 1989 da madre italiana e padre peruviano, Giulia Revolo ha la multiculturalità nel DNA. Dopo il liceo artistico si è trasferita a Sydney per quattro anni, dove ha lavorato come assistente costumista all’Opera House, si è laureata in Design per il teatro e il cinema al TAFE College e ha lavorato nello studio della set & costume designer Emma Kingsbury. Il richiamo della moda, passione scoper ta strada facendo, l’ha ripor tata a Milano, dove ha frequentato il master in fashion design di Domus Academy e ha lavorato per il gruppo Inditex. Oggi è una fashion stylist attiva su tre fronti: editoriali per magazine come Vogue (Ucraina, Por tugal, Czech, Vogue.it). L'Officiel (Singapore, Ucraina), Interview Magazine, Metal, PUSS PUSS, C41 e Rollingstone Italia; videoclip musicali (Cosmo, Gazzelle, Fedez, Dente, Baustelle); lookbook e commercial per clienti comeYoox, Diesel, Campari, Coca-Cola, Virgin, HSBC, Discovery Channel, por tando nella pubblicità commerciale un personalissimo gusto eclettico.