Il packaging deve essere una porta d’accesso al prodotto, non un ostacolo, indipendentemente dalle abilità motorie, sensoriali e cognitive degli utenti. Ma come è possibile combattere il package rage, ossia la cosiddetta frustrazione da imballaggio, e rendere accessibile a tutti l’esperienza di acquisto e fruizione? Ecco come il design ci viene in soccorso.
Di Lorenzo Capitani | Su PRINT 82
Gli italiani trascorrono 17 minuti a settimana cercando di aprire scatole, pacchetti, pluriball, fascette e blister. Il dato, emerso da una ricerca della multinazionale inglese DS Smith specializzata in packaging sostenibile, assume maggiore rilevanza se si pensa che il 35,5% degli intervistati ha affermato che la complessità degli imballaggi li ha portati a non acquistare più un determinato brand e il 25% ha dichiarato di non aver ordinato prodotti online a causa delle difficoltà nell’aprirli. Con un costo medio d’acquisto di 85 euro a persona, ciò si traduce in mancati acquisti per circa 2 miliardi di euro l’anno.
In realtà, il packaging più o meno difficile da utilizzare ha un impatto non solo economico, ma sociale: è ancor più importante se si considerano le fasce di popolazione con difficoltà o limitazioni fisiche per le quali una semplice scatola, non un inespugnabile bivalve in PET termoformato, può essere davvero impossibile da aprire, o una semplice etichetta con la data di scadenza può essere del tutto illeggibile se non, peggio ancora, addirittura invisibile.
Eppure le regole ci sono: per esempio, nella “Carta etica del packaging” di cui il settore si è dotato nel maggio 2015, al punto 4 si legge che un imballaggio deve essere accessibile, ovvero capace di proporsi in modo facile e intuitivo a chi lo utilizza, garantendo “un utilizzo flessibile, che includa mancini e destrorsi” e deve essere in grado di comunicare “in modo efficace anche ai soggetti più deboli e indipendentemente dalle abilità sensoriali degli utenti. […] Le modalità sensoriali della vista e del tatto, e la loro qualità, contribuiscono attivamente a rendere il packaging accessibile in ogni sua componente: accessibile grazie al trattamento grafico dei testi che ne garantisce la leggibilità; accessibile poiché l’organizzazione spaziale e l’impaginazione assicurano una facile reperibilità delle informazioni. È accessibile poiché offre un’interazione immediata che ne permette l’utilizzo”. Quindi al di là di contenere, proteggere, conservare, presentare e, quindi vendere, il packaging deve essere la porta di accesso al prodotto, e non un ostacolo.
Contro il ‘package rage’, o frustrazione da imballaggio, Amazon è stata tra le prime aziende a prendere provvedimenti, certo per motivi sociali ma anche per mere necessità pratiche di ottimizzazione della logistica, dei costi di inscatolamento e spedizione, e di smaltimento. Andando oltre le scatole ad apertura facilitata, negli USA ha imposto ai fornitori le cosiddette scatole ‘frustration free’: solo cartone ecologico, poca plastica, pochi scomparti, insomma l’essenziale senza l’imballo originale ad apertura immediata e garantita. Hasbro e Mattel, anche in Italia, su alcuni prodotti hanno già usato queste soluzioni.
Tutto a portata di mano
Purtroppo per chi ha disabilità fisiche il problema non è solo il packaging, ma l’esperienza di acquisto nella sua interezza. Gli store fisici non sempre garantiscono un’esperienza inclusiva ai clienti a causa di diversi fattori, a partire dalla struttura degli scaffali e dal posizionamento dei prodotti al loro interno. Se partiamo dalla definizione che ha dato della disabilità Caterina Falleni, Design Lead for Accessibility in Facebook, come di “un’interazione errata tra le caratteristiche del corpo di una persona e le caratteristiche dell’ambiente in cui vive”, e ci guardiamo intorno, ci accorgiamo che gli scaffali di supermercati, librerie, store sono tutto tranne che inclusivi. Come ben sappiamo il cosiddetto ‘in-store product placement’ o Shelf Marketing non è assolutamente casuale, bensì frutto di un processo di marketing e di design che si avvale di studi e discipline che cooperano per ottenere precisi comportamenti di acquisto. Ma cosa succede se, banalmente, non si arriva a prendere un prodotto? Se ci si deve limitare ai soli prodotti accessibili in modo autonomo – e non occorre essere su una sedia a rotelle, basta essere anziani, più bassi della media, in sovrappeso – anche se si è interessati a prodotti diversi significa che il marketing ha fallito. Eppure basta poco, come suggerisce Domenico Monaco nel suo blog dedicato alle tecnologie per le persone: se l’area più inclusiva è quella a media altezza di uno scaffale, esistono almeno 4 modalità di disposizione che possono risultare accessibili davvero a tutti: per colonne, alternato, top-bottom e ripetitivo. In particolare, il top-bottom risulta il più efficace in termini di accessibilità, riconoscibilità del prodotto e spazi occupati. Si realizza prevedendo due aree per colonne, una nella parte alta e una nella parte bassa: così le due aree sono in parte accessibili nell’area centrale dello scaffale.
Un design più inclusivo è una vittoria per tutti
Ma torniamo alle scatole sigillate da troppo nastro adesivo, alle confezioni chiuse da fascette di plastica, agli oggetti fissati da viti o filo di ferro, alla pellicola trasparente, ai tappi bloccati dei barattoli e alle bottigliette di medicine, alle linguette delle lattine: cosa succede se, oltre a non riuscire a maneggiarle, non si riesce nemmeno a vederle? Dosare per esempio il detersivo per la lavatrice o distinguere lo shampoo dal balsamo? Sono domande che si sono fatti in Procter&Gamble come racconta Sumaira Latif, leader globale di Inclusive Design, affetta in prima persona da una rara patologia genetica che l’ha resa ipovedente.
«Le nostre Dash Pods hanno semplificato il bucato per tutti. In particolare, le persone con problemi di cognizione, visione o destrezza trovano semplice mettere la capsula direttamente nella lavatrice, prima di mettervi i loro capi. Prima era più difficile per molte persone misurare con precisione il detersivo». Seguendo l’esempio del brand francese L’Occitane, prosegue Latif, «abbiamo introdotto sulle nostre bottiglie di Herbal Essences Bio Renew piccole linee verticali per riconoscere lo shampoo, due linee di puntini orizzontali per identificare il balsamo, con un sistema che risulta accessibile anche a chi non conosce il braille, un alfabeto che di fatto può richiedere anni di studio. Herbal Essences e ClearBlue sono integrati con l’app Be My Eyes, che consente ai consumatori ipovedenti di videochiamarci per consigli sui capelli e letture dei test di gravidanza sfruttando la tecnologia Alexa di Amazon». Inoltre, il sito e il profilo Instagram del brand sfruttano Apple Voice Over per consentire agli utenti di ascoltare le descrizioni delle immagini nel feed. Ma esistono altri semplici trucchi più tradizionali che possono essere usati, come riporta la Mordor Intelligence, specializzata in studi di mercato, nel suo report “Mercato del packaging cosmetico - Crescita, tendenze e previsioni (2020-2025)”: si va dall’uso di imballaggi di forma quadrata, poiché quelli rotondi tendono a rotolare via e sono quindi difficili da trovare per i non vedenti, ai tappi con chiusura a scatto o magnetica, come nel caso del rossetto Rouge Allure Velvet di Chanel.
Suoni nel buio
Ma in P&G sono andati oltre: nel Regno Unito hanno inserito descrizioni audio in tutte le pubblicità tv, consentendo ai consumatori non vedenti e ipovedenti di ascoltare una descrizione delle azioni che aiutano a capire meglio lo spot. A dire il vero, anche in Italia, a luglio 2019, P&G ha annunciato il suo impegno per adattare le pubblicità descrittive per i loro marchi principali per coinvolgere i consumatori ciechi e ipovedenti. «La pubblicità Gillette Shave like a bomber l’ha anche già adottata – dice Latif – peccato che non possa andare in onda perché i broadcaster italiani non hanno ancora la tecnologia adatta per trasmetterla».
Sul fronte dell’inclusione degli ipovedenti, dunque, si è già andati oltre l’adozione del braille, il sistema di lettura e scrittura tattile a rilievo messo a punto dal francese Louis Braille nella prima metà del XIX secolo. Il packaging accessibile alle persone con problemi di vista, per esempio, non rappresenta ancora un vero e proprio trend, ma è un fenomeno in costante crescita. Il numero di aziende che lavorano in questa direzione aumenta anno dopo anno, pur rivolgendosi a una nicchia di mercato comunque ragguardevole: nel mondo 1,3 miliardi di persone vivono con diversi problemi visivi, e di questi 36 milioni sono non vedenti. Non a caso il video realizzato dalla YouTuber Molly Burke che si trucca e trucca il collega James Charles, e in cui descrive la sua vita come un’amante della bellezza che non riesce a vedere ciò che indossa, ha più di 13 milioni di visualizzazioni.
Per lo più, spiega Molly, ci si arrangia scegliendo prodotti che “incidentalmente” hanno caratteristiche riconoscibili come il set Chocolate Bar composto da 16 ombretti di Too Faced Cosmetics del gruppo Estée Lauder, che essendo a base di polvere di cacao ha differenti profumi a seconda del colore e che le donne ipovedenti riescono a distinguere con l’olfatto.
Un marchio che ha incorporato con successo il Braille nella confezione è la francese L’Occitane. Negli anni ‘90, il fondatore Olivier Baussan notò che un cliente cieco, in un negozio, tastava le bottiglie nel tentativo di familiarizzare con il prodotto. Ha iniziato a mettere il braille sulla confezione dell’azienda già dal 1997. Oggi circa il 70% dei prodotti L’Occitane è dotato di etichettatura braille, ma i vincoli tecnici limitano ancora la piena implementazione. Il raggiungimento del 100% è ostacolato da alcuni problemi tecnici, come la collocazione del braille sui prodotti più piccoli come saponette e tubetti. La ricerca e l’implementazione hanno comportato un costo aggiuntivo di circa il 25%, «ma siamo disposti a pagare, perché è così significativo», afferma un portavoce della Fondazione L’Occitane.
Etichette, oltre il braille
Implementare il braille vero e proprio nel packaging è una scelta anche dell’azienda RPC M&H Plastics, specializzata in produzione di contenitori di plastica di alta qualità, che ha sviluppato un sistema per portare il braille direttamente sulle confezioni in plastica. Stampare direttamente sulle confezioni, infatti, ha grandissimi vantaggi rispetto alla realizzazione di etichette, che possono più facilmente deteriorarsi o essere strappate via. Per la stampa viene utilizzata una vernice particolare per imprimere i puntini; un sistema misura, inoltre, la distanza tra i segni per assicurare che l’altezza del braille resti uniforme in tutta la confezione, requisito fondamentale per una corretta leggibilità. Nel tempo, il mondo del packaging si è dimostrato particolarmente sensibile all’uso del braille. La legge n. 149 del 26.07.2005 prescrive che gli astucci di prodotti farmaceutici, fitoterapici e omeopatici devono riportare il nome commerciale in braille; dal 2007 anche la data di scadenza e la posologia deve essere in braille. Da allora i produttori si sono adeguati, ma il problema nasce con quelle informazioni, come le date di scadenza, che sono stampate direttamente su bottiglie, flaconi, latte, buste e scatole e che spesso sono difficili da leggere anche per i normovedenti. Imprimere in braille sull’etichetta spesso non è una via percorribile perché l’applicazione o altre lavorazioni potrebbero appiattire il rilievo del punto. Per trovare una soluzione a questa problematica, la startup food-tech inglese Mimica ha creato etichette che si degradano una volta superata la data di scadenza: in questo modo i non vedenti possono capire al semplice tocco quando è tempo di buttare via il prodotto. Composta di una particolare gelatina, l’etichetta funziona come avvertimento tattile: se appare solida e liscia il cibo è ancora commestibile; altrimenti, se appare molle e irregolare, è scaduto.
Più tradizionalmente i settori oleario e vinicolo hanno cercato una soluzione che unisca braille e QR code. Il primo riproduce tutte le informazioni obbligatorie, cioè quelle che, per legge, ogni produttore di olio d’oliva deve fornire al consumatore; il secondo rimanda a un audio scaricabile da smartphone ed è stato battezzato “etichetta narrante”. Ad annunciare la nuova etichetta è il Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’economia agraria), che ha collaborato con l’Unione italiana ciechi e ipovedenti (Uici) di Cosenza. La tecnologia è stata fornita da SISSpre, specializzata in soluzioni tecnologiche per tracciabilità alimentare e l’olio è quello dell’azienda agricola Di Tucci.
Sono molte di più le aziende vinicole che hanno etichette in braille. La cantina La Cura di Massa Marittima, per esempio, ha una speciale selezione di Cabernet Sauvignon con una retro-etichetta in braille e QR code con informazioni audio. «Una sera mi sono ritrovato a cena con persone non vedenti e ho capito che potevo e dovevo fare qualcosa per loro» spiega Enrico Corsi, il proprietario. «Con 5 centesimi in più a etichetta possiamo dare la possibilità a tutti di leggere il vino». Nessun QR code ma etichetta in braille anche per le bollicine di Durin, storico produttore di vino di Ortovero, in Liguria. Lo stesso fanno, tra gli altri, la marchigiana Castrum Morisci e Ca’ del Principe di Santo Stefano Belbo, nel cuore delle Langhe. La prima esperienza, però, si è avuta nel 2010 in Veneto con l’azienda Italo Cescon Storia e Vini di Roncadelle di Ormelle. Tra i produttori di etichette va citata la piacentina Etik90, specializzata tra le altre produzioni in etichette con rilievo serigrafico con vernice braille. Da notare però che spesso i produttori di etichette usano la dicitura ‘rilievo braille’ per indicare l’effetto rilievo ottenuto con la verniciatura o con lo sbalzo.
Grafica ad alto contrasto
Ma il packaging inclusivo non passa solo da braille, QR e aperture facilitate. Basta una grafica ad alto contrasto per venire incontro a tutte quelle persone affette per esempio da dislessia. Nel mondo si calcola che siano più di 700 milioni di bambini e adulti a esserne affetti, ovvero tra il 10 e il 20% della popolazione. È interessante, a tal proposito, la gamma di imballaggi Vision 20/20 che utilizza insieme i colori ad alto contrasto, nero e giallo. La grafica e le immagini semplici li rendono facili da individuare su uno scaffale. Il testo sulla parte anteriore del prodotto è semplice da leggere con un carattere grande e chiaro.
A causare la dislessia è la tendenza del nostro cervello a scambiare, ruotare o specchiare le lettere. Gli studiosi pensano che dipenda dal fatto che il cervello tende a vedere le lettere non come semplici oggetti bidimensionali, ma tridimensionali che possono essere facilmente manipolati. È quello che accade con la b e la d o la p e la q. Sulla base di queste osservazioni, il designer Christian Boer, affetto da dislessia, nel 2008 ha creato un font che riduce le difficoltà di lettura. «Tradizionalmente nella progettazione dei caratteri tipografici – spiega Boer – esistono regole che dicono che è meglio rendere le lettere il più uniformi possibile e così l’arco della n è uguale a quello dell’h. Per questo il font Dyslexie che ho disegnato è fortemente asimmetrico. Invece di mantenere le lettere di dimensioni uniformi, alcune hanno aste più lunghe e così lettere simili, come v, w e y, variano nella loro altezza quando vengono digitate». Mentre i caratteri serif diffusissimi, come Times New Roman, sono spesso difficili da leggere per i dislessici, Boer ha scoperto che l’aggiunta di alcune grazie potrebbe aiutare. Sulla lettera u del Dyslexie, per esempio, l’uncino verticale destro è affusolato per renderla più lunga rispetto all’uncino della n.
Il font di Boer non è l’unico per le persone con dislessia. Natascha Frensch, graphic designer del Royal College of Art, ha prodotto nel 2003 il Read Regular e la British Dyslexia Association (BDA) raccomanda di usare Arial, Comic Sans o Century Gothic. Ma il carattere di Boer esagera l’asimmetria molto più di questi caratteri per renderli ancora più facili da leggere. Tanto che numerosi studi hanno dimostrato l’efficacia di questo font. Il Dyslexie è molto apprezzato tanto che, da quando è stato reso disponibile online nel 2011, è stato scaricato più di 300.000 volte, principalmente da privati, ma anche da scuole, università e aziende.
Dalla grafica arriva anche una soluzione al problema dell’integrazione estetica e funzionale del braille, che di norma richiede uno spazio aggiuntivo dedicato. Una via è quella tentata dal creativo giapponese Kosuke Takahashi che ha progettato il Braille Neue, un carattere tipografico universale che combina il sistema di scrittura e lettura a rilievo braille con i caratteri tradizionali, divenendo leggibile allo stesso tempo sia alle persone vedenti che a quelle non vedenti. Braille Neue è composto da due varianti: Braille Neue Standard, pensato per l’alfabeto inglese, e Braille Neue Outline, variante dei due alfabeti giapponese e inglese. Una bella impresa, vista la diversa geometria dei due.