Il sistema Pantone si è affermato tra gli addetti ai lavori perché ha raccolto e catalogato una grande quantità di tinte, estendendo la gamma dei colori ottenibili a stampa con la sola quadricromia e indicando la ricetta per ottenere una particolare tinta in modo stabile e riproducibile. Ora che Adobe ha progressivamente rimosso le librerie Pantone dai propri programmi abbiamo la certezza che si tratti di un problema e non, invece, di un’opportunità?
Di Lorenzo Capitani | Su PRINTlovers 97
Da novembre scorso, dalla Creative Cloud 2023, Adobe ha progressivamente rimosso le librerie Pantone dai suoi programmi e in molti, nel mondo della grafica, disorientati, hanno levato voci di dissenso. Ma siamo sicuri che questo fatto non sia un’opportunità invece che un problema?
Siamo sicuri che il sistema Pantone sia veramente all’altezza della sua fama o, meglio, che se ne faccia un uso corretto? O che quello che vediamo stampato su una mazzetta corrisponda effettivamente alla sua ricetta? Tante domande alle quali proveremo a dare una risposta per fare un po’ di chiarezza nel complesso mondo delle tinte piatte; ad accompagnarci c’è Denis Salicetti, Consigliere e rappresentante TAGA Italia al Ghent Workgroup e alla PDF Association.
La prima raccolta di colori di cui si abbia notizia risale al Traité des couleurs servant à la peinture à l’eau, un volume di più di 700 pagine del 1692 di un artista olandese conosciuto solo come A. Boogert1. La sua idea era quella di catalogare tutti i cambi di tonalità ad acquarello, mischiando i colori e aggiungendo una, due o tre parti di acqua; la stessa idea che venne a Lawrence Herbert quando nel 1963 sviluppò il primo Pantone Matching System, 500 tinte composte a partire da una serie di colori base. Oggi la sola mazzetta Formula Guide ne raccoglie ben 2390. Di fatto il sistema Pantone si è affermato tra gli addetti ai lavori perché ha saputo raccogliere e catalogare una grande quantità di tinte, estendendo la gamma dei colori ottenibili a stampa con la sola quadricromia, consentendo di ridurre il numero di inchiostri e soprattutto indicando la ricetta per ottenere una particolare tinta in modo stabile e riproducibile. Il successo della libreria Pantone coincide con l’esplosione del marketing e dell’identità di brand negli anni ’70 e ’80. Kodak per esempio, che produceva le sue inconfondibili scatole gialle dei rullini da diversi stampatori, aveva il problema che non erano tutte uguali e, secondo alcune ricerche di mercato, i consumatori tendevano a lasciare sugli scaffali quelle più scure, temendo che le loro foto non avrebbero avuto colori vividi e brillanti. Usando il Pantone 1235 per il giallo e il 2035 per il rosso, Kodak riuscì a risolvere il problema.
Un grande equivoco
Così le librerie Pantone entrarono nei programmi di grafica e di impaginazione, diventando standard nella scelta e definizione del colore, ma anche nella sua riproduzione. Il sistema Pantone, però, è solo uno dei modi per definire una serie di colori tra tutti i milioni possibili, forse la prima nomenclatura sistematica, ma non l’unica e soprattutto non la più precisa. Non è un problema del sistema Pantone in sé, ma dell’uso che nel tempo se ne è fatto, e se ne fa, che ha generato una serie di semplificazioni eccessive e ambiguità che non lo rendono affidabile. Tanto per cominciare abbiamo finito per usare come sinonimi “pantone” e “tinta piatta”, ma non sono la stessa cosa. Un colore Pantone è una particolare tinta piatta, cioè un colore riproducibile a stampa con un solo inchiostro invece che con la combinazione dei 4 inchiostri base. In altre parole, potrei avere tranquillamente una tinta piatta, con una sua precisa descrizione, che non è affatto contenuta nella libreria Pantone. «Nel corso degli anni – ci dice Salicetti – le guide Pantone cartacee sono diventate erroneamente uno standard di fatto, perché inizialmente il sistema era esclusivamente analogico; poi grazie all’introduzione di strumenti software e di misurazioni sempre più efficienti ed economici si è passati al sistema digitale, lasciando però come riferimento puramente indicativo anche il cartaceo».
In pratica abbiamo preso la mazzetta Pantone stampata e i suoi colori come unico riferimento, credendo che basti il numero del pantone per avere quello stesso colore riprodotto a stampa esattamente come si vede sulla mazzetta stessa. Il problema è che non funziona così: l’assunzione “scelta una tinta piatta da una mazzetta Pantone, con la sua ricetta si otterrà un inchiostro che stampato sarà uguale alla tinta scelta” non è corretta perché non è corretto il modo per definire quella tinta piatta e per comunicarlo. Non basta guardare un pezzettino di carta stampata per poi pretendere che quel colore venga riprodotto esattamente così. Esistono, infatti, almeno due problemi.
Il primo è legato alla mazzetta Pantone, perché anche lei è stampata, e come tale soffre di tutte le problematiche, tolleranze e difetti legati ai normali processi di stampa offset (uno per tutti la densità dell’inchiostro), subisce alterazioni fisiche dovute al tempo, all’esposizione alla luce, all’ossidazione degli inchiostri e all’uso che se ne fa, e anche se è della stessa serie e annata ogni esemplare differisce da un altro.
Il secondo problema è legato alla caratterizzazione del colore scelto, cioè alla tecnica di riproduzione e al supporto che verrà usato in termini di finitura, punto di bianco e colore: perché la stessa tinta piatta cambia in modo sensibile se riprodotta su una carta usomano o su una patinata lucida o ancora su un cartoncino riciclato. In pratica quando si crea una brand identity non basta dire il numero del Pantone, ma bisogna darne una precisa definizione che tenga conto dei contesti d’uso.
Utile ma non affidabile
C’è però un’ulteriore complicazione che l’eliminazione delle librerie Pantone dai programmi Adobe ha fatto emergere, forse proprio perché questa scelta ha alzato l’attenzione degli esperti: le mazzette Pantone non sono nemmeno così affidabili, perché cambiano nel tempo, contengono refusi o errori e l’estensione progressiva del numero delle tinte ha generato paradossi nelle ricette che contengono quantità minime di colori talvolta non distinguibili a occhio nudo. Basti qualche esempio. Il Pantone 100C della mazzetta PMS è diverso rispetto a quello riprodotto nella mazzetta Pantone Plus, lo stesso il Reflex Blue C o il 2635C.3 Quest’ultimo tra l’altro nella versione 2023 ha cambiato ricetta e per ottenerlo occorre miscelare 95,44% di PANTONE HD Extender (bianco), 4,15% di Violet v2, 0,35% di Green e 0,06% di Black: percentuali risibili. Sempre nella mazzetta 2023 il pantone 114C ha la stessa ricetta del 113C, così come il 106C ha la stessa del 107C o il 108C quella 109C. Refusi? Può darsi, ma su quei valori teoricamente gli inchiostrai dovrebbero fare gli inchiostri e gli stampatori stampare. “Teoricamente” per fortuna, perché chi fa inchiostri non si basa sulla ricetta della mazzetta, ma su valori più certi onde evitare di avere errori tipo pantoni stampati sulla mazzetta che misurati corrispondono ad altri. «Facendo alcune misurazioni – ci racconta Salicetti – ci siamo accorti che il 7541C, per esempio, misurato corrispondeva al 621 o che il 7544C corrispondeva al 430».
La solidità del dato digitale
Bene, ma se la mazzetta, come del resto dichiara Pantone già dal lontano 2010 (The 2010 digital characterization data set is the new the-facto reference, not the printed books), è solo un riferimento cartaceo indicativo, cosa definisce in modo inequivocabile un colore? Il suo dato digitale, la sua descrizione in valori assoluti, definiti scientificamente secondo lo spazio colore Lab (o CIELAB). Nello spazio Lab i colori sono definiti secondo i valori di Luminosità, Tonalità e Croma: «Immaginiamo di trovarci in una grande stanza con un palo al centro: in basso il palo è nero, in alto è bianco e in mezzo ha tutte le sfumature di grigio: questo è l’asse della luminosità. Muovendoci intorno al palo incontriamo tutti i tipi di tonalità. Più ci allontaniamo dal palo, poi, più i colori diventeranno intensi definendo la croma. Combinando questi 3 elementi si ottiene la descrizione scientifica di un colore».6
Ma dove troviamo il dato digitale di ogni tinta Pantone? «Nella libreria colori presente in molte applicazioni grafiche, tra cui anche quelle di Adobe precedenti all’edizione 2023 (sul sito iridsystem.it/software/pantone/ è presente un tool chiamato Panto-Lab che fornisce i valori Lab equivalenti, ndr). A ogni corrispondenza di colore è associato il rispettivo valore colorimetrico in Lab, determinato con precise condizioni di misurazione, generalmente D50/2°/M2, effettuate con lo spettrofotometro». Già, perché non basta avere l’indicazione dei valori che definiscono un determinato colore (per esempio 70/47/79), ma occorre anche dichiarare come è stato misurato in modo da riprodurre le stesse condizioni di misurazione e quindi valutare correttamente le differenze, o le tolleranze, tra un campione e quello che effettivamente si sta stampando. Il D50 indica la sorgente di luce, dove la D sta per luce diurna e il 50 per 5000 Kelvin (temperatura della luce). Il secondo valore indica l’angolo di visione (2°), mentre il terzo indica in che misura tenere conto degli sbiancanti ottici contenuti della carta: M0, M1 e M2 sono presenti nei dati digitali di Pantone, mentre Photoshop usa solo il valore M2. Ora, tutto questo può decisamente disorientare, ma la cosa da sapere alla fine è che due spettrofotometri saranno allineati se avranno stesse condizioni di misura. Quindi un colore con valori Lab 70/47/79 misurato a D50/2°/M2 sarà riprodotto correttamente a parità di valori e condizioni.
Misurare, misurare sempre
Lo spettrofotometro è uno strumento in grado tra l’altro di misurare due colori e di calcolarne le differenze in termini di ∆E₀₀ (si legge delta E 2000). Ora, senza addentraci in tecnicismi, un ∆E₀₀ 1 è la differenza minima percepibile da un esperto di cromia, mentre normalmente si percepisce una differenza di colore intorno a 3. Sembrerebbero questioni oziose da scienziati del colore, eppure l’impatto di usare un sistema di riferimento inaffidabile come la mazzetta stampata e di non effettuare misurazioni può essere dirompente. Se per esempio il colore che abbiamo scelto dalla nostra mazzetta ha un ∆E₀₀ 2 rispetto al dato digitale e quella dello stampatore, magari più usurata, ha un ∆E₀₀ 3, le due mazzette potrebbero differire di 5, ovvero una differenza decisamente sensibile. Pantone dichiara che il 90% dei suoi colori stampati rientra in una tolleranza di ∆E₀₀ 2, quindi già il 10% è fuori e 2 potrebbe diventare 4 sommando i ∆E₀₀ di due mazzette diverse. Di più: «All’ultimo TAGA Day – racconta Salicetti – confrontando il dato digitale delle guide del 2022 e del 2023 con le rispettive mazzette stampate sono emerse disparità importanti. Per esempio, nella guida 2023 ben 283 colori su 2134 avevano ∆E₀₀ 4 (13%) e 84 avevano ∆E₀₀ 5 (4%)». Insomma, tutti i membri della filiera, dal creativo allo stampatore, dovrebbero avere uno spettrofotometro perché è «uno strumento determinante per la valutazione dello stampato e perché consente di ottenere una misura oggettiva, precisa, affidabile e ripetibile nel tempo, eliminando il fattore soggettivo dell’osservatore con la relativa componente psicologica (quella che Salicetti chiama ‘occhiometro’, ndr) e le possibili distorsioni dovute alle condizioni ambientali di illuminazione».
Comunicare il colore
Ora che abbiamo un sistema di riferimento chiaro e un metodo universale per misurare i colori, dobbiamo imparare a comunicarli in modo corretto, tenendo conto che dovranno essere riprodotti, non solo a stampa. Si tratta in pratica di costruire una scheda in cui di un colore si da la definizione assoluta in valori Lab, le condizioni di misurazione e i valori per ciascun uso, dal digitale alla stampa.
Convertire
Il modo più corretto per costruire questa scheda è partire dai valori in Lab del colore e convertirlo nei diversi spazi colore, partendo dall’RGB di cui è indispensabile dichiarare anche il profilo, perché profili diversi hanno gamut diversi, ovvero hanno diverse gamme di colori riproducibili: le applicazioni web usano l’sRGB, mentre in prestampa si usa l’AdobeRGB, più ampio dell’sRGB, quindi con più colori. Dichiarare il profilo è fondamentale perché gli stessi valori RGB danno colori differenti a seconda del profilo: Photoshop alla mano il verde RGB 86/161/66 è visibilmente diverso in sRGB rispetto all’AdobeRGB.8 Per passare un colore da Lab in RGB è sufficiente, in Photoshop, con il profilo RGB corretto impostato, in Colori partire dal campione Lab e cambiarlo in RGB.9
Lo step successivo è la conversione in CMYK che verrà usata per la stampa in quadricromia se non si vuole usare una tinta piatta. Ovviamente chi produce l’inchiostro realizzerà la tinta piatta a partire dai valori Lab definiti in partenza e misurati secondo le condizioni di misura. Quando si converte in quadricromia si possono avere due approcci diversi: affidarsi alla conversione automatica che riduce al minimo il ∆E₀₀ tra colore di partenza e l’equivalente in CMYK o ottimizzare manualmente la conversione. Nel primo caso, si ottengono i valori di quadricromia esattamente come fatto per l’RGB, cambiando il Lab in CMYK, anche in questo caso con il profilo corretto (attualmente per la carta patinata si usa il PSO Coated v3 basato su FOGRA 51). Nel secondo caso, invece, si converte in automatico e successivamente si interviene sui valori per renderli più coerenti e più stampabili in termini di qualità, stabilità e riproducibilità, secondo alcune linee guida.
Ottimizzare
Prendiamo per esempio il pantone 362C che ha valori Lab 57/-44/43 e CMYK 70/12/99/1. Per prima cosa dobbiamo eliminare le percentuali molto basse di un inchiostro perché possono causare instabilità in fase di stampa e rendere il colore diverso non solo tra diverse tirature, ma anche all’interno della stessa: quell’1% di nero è assolutamente trascurabile e compensabile modificando leggermente le altre percentuali. Bisogna poi arrotondare i valori prossimi al 100%: il 99% di giallo dell’esempio, portato a 100% non comporta alcuna differenza visiva e in stampa sarà sempre il 100%.10 Infine, considerate la possibilità di ridurre il numero di inchiostri: un esempio di come si può intervenire è il pantone 161C che convertito automaticamente diventa CMYK 31/61/73/58, ma è possibile ottenere lo stesso colore, eliminando il ciano, con M 48, Y 62, K 72.11 Questa tecnica si chiama sostituzione dei componenti grigi (GCR): poiché determinate combinazioni di CMY possono essere considerate grigie, è possibile sostituirle parzialmente o completamente con il nero. Meno colori significa meno lastre, meno inchiostro, costi inferiori, maggiore stampabilità e minori tempi di asciugatura. Attenzione però ai casi limite. Il grigio in sRGB 40/40/40, che convertito in CMYK PSO Coated ha valori 67/58/47/78, può essere semplificato in K 95, quindi un solo inchiostro grigio scuro e neutro, mentre nella conversione automatica, alla minima variazione in stampa dei colori si otterrebbe un grigio non più neutro, per non parlare del fatto che, con quelle quantità di inchiostro, potrebbero esserci problemi di essiccazione. Eppure il nero da solo potrebbe non avere sufficiente carica e risultare scarico. Quindi? «La sostituzione della componente grigia è un’operazione che può essere effettuata in maniera puntuale anche sul singolo oggetto. Questo significa che la quantità di componente grigia può essere aumentata o diminuita a seconda delle esigenze del progetto, del contesto di utilizzo e del tipo di supporto: a volte potrebbe essere necessario aumentare la quantità di componente grigia per migliorare la neutralità in CMYK, altre volte potrebbe essere necessario diminuirne la quantità per essere più precisi e coerenti con le aspettative. Questa tecnica va utilizzata con piena consapevolezza per evitare di compromettere la qualità della stampa e la fedeltà dei colori. Nel dubbio è sempre bene chiedere allo stampatore».
Un colore stabile e riproducibile
Indubbiamente, questi interventi potrebbero generare un colore che stampato si discosta minimamente dal campione di partenza, cosa che peraltro già accade quando si passa da RGB a CMYK a causa del diverso spazio colore: allora è meglio adattare il campione stesso per ottenere un colore riproducibile; del resto, come l’osservazione quotidiana suggerisce e molti esperimenti hanno dimostrato, al di là del ∆E₀₀ minimo percepibile, chi guarda ha una memoria del colore diversa dalla realtà (il rosso Coca-Cola è uguale al rosso Netflix?) e le condizioni di osservazione cambiano di continuo, influenzando la percezione. Il modo in cui vediamo un colore cambia in funzione delle condizioni di luce, di intensità e di incidenza, dagli altri colori circostanti e dalla psicologia: il solo fatto di essere chiamati a valutare un colore rende ipercritici, cosa che non siamo affatto in un supermercato.12
Definito il colore di base in Lab e i colori derivati nei diversi spazi colore con i relativi profili, è possibile estendere la descrizione ad altri sistemi, di cui il Pantone può essere uno, ma ce ne sono altri, come il RAL, utile per verniciare. Non resta che completare la scheda colore con alcune informazioni aggiuntive, ma altrettanto importanti, che devono essere conosciute da chi dovrà usare il colore descritto come i supporti e le finiture ammesse. La carta infatti è il cosiddetto “quinto colore” perché ha un punto di bianco, può essere colorata o avere sbiancanti ottici che influiscono sulla resa dei colori, così come eventuali plastifiche o verniciature. Per rendersi conto del ruolo che gioca la carta e di quanto i valori Lab siano solidi in funzione delle condizioni di misura dichiarata, basti pensare che un verde CMYK 92/0/87/5 con valori Lab su patinata di 51/-56/22 ha una differenza ∆E₀₀ 23 rispetto allo stesso verde stampato con gli stessi valori CMYK su usomano (Lab 51/-38/7).
Dal colore reale a quello stampato
Tornando alla mazzetta Pantone stampata – che può essere ancora usata ma con la consapevolezza che è una guida per scegliere un colore – qual è il processo corretto per creare una scheda colore che descriva correttamente quanto si vede sulla mazzetta? Ovvero se voglio per esempio ottenere pantone 113 C come lo vedo sulla mazzetta coated, il cui dato digitale darà un colore leggermente diverso, come ottengo il vero dato digitale di quello che vedo? «Misurando con lo spettrofotometro, correttamente impostato, il campione colore che vogliamo riprodurre, ottenendo così il dato digitale da utilizzare per la compilazione della scheda colore. In questo modo, si ottiene una misura oggettiva del colore, che non dipende dall’occhio umano e dalle condizioni della mazzetta in uso, ma che è basata su informazioni spettrali dettagliate e precise. Inoltre, l’uso dello spettrofotometro permette di ottenere un dato digitale che può essere facilmente archiviato e condiviso con altre parti coinvolte nel processo produttivo, garantendo così la riproducibilità del colore nel tempo e la coerenza tra i vari lotti di produzione». Già, perché un campione di colore una volta descritto dovrebbe anche essere fornito come libreria a chi deve usarlo insieme alla scheda colore. Si parte da Illustrator, con il pannello colori vuoto ([Nessuno] e [Registro] non si possono eliminare) e impostando PSO Coated v3 come profilo di CMYK, e si crea un nuovo campione tinta piatta con i valori Lab desiderati, si procede poi duplicandolo e aprendolo per modificare le opzioni con i valori CMYK desiderati per i diversi tipi di carta e alla fine si esporta come libreria in ASE (Adobe Swatch Exchange). Ovviamente questo può essere fatto anche a partire dalle librerie Pantone (esportate dalle vecchie versioni dei programmi o abbonandosi a Pantone Connect), trattate però come uno dei possibili campioni e passando sempre dal corrispettivo dato in Lab.
Traduttore insieme a Manuel Trevisan di “Better Brand Color Guide”, progetto internazionale nato per sopperire all’eliminazione delle librerie Pantone e per cercare di risolvere le incomprensioni tra committenti e stampatori sulla riproducibilità delle tinte piatte.