Gucci, Ferragamo, Fendi, Prada, Zegna, Eberhard & Co., Locman, Buccellati, Damiani e Salvini sono solo alcuni dei brand per cui ha lavorato. Stefano Campo Antico, nato nel 1965, ha cominciato a fotografare negli anni Ottanta, “quando la fotografia – dice – era una cosa completamente diversa”, formandosi sotto la guida di Sandro Sciacca, di cui è diventato socio ed erede creativo nello studio di Milano.
Di Michela Pibiri | Su PRINT 71
Dapprima fotografo di architettura, si è poi specializzato nello still-life nel settore del lusso, occupandosi principalmente di cataloghi e pubblicità per gioielli, orologi e altri accessori, dalle borse alle cravatte, dalle calzature agli occhiali. La sua ultima fatica: la collaborazione a L’Arte di Sfidare il Tempo, il libro edito da Rizzoli che celebra i 130 anni di Eberhard & Co.
Nello studio di Via Benedetto Marcello a Milano ci mostra i suoi strumenti di lavoro: una Hasselblad, una Canon, ottiche macro e due sale posa – di cui una dedicata esclusivamente all’infinitamente piccolo – in un ampio open space in cui la luce è sapientemente distribuita tra zone chiare e oscurità totale. Una tazzina di Nespresso – cliente importante, perché anche le capsule del caffè luccicano e devono farsi guardare – e si parte con l’intervista.
Aver cominciato a fotografare negli anni Ottanta significa avere un retroterra legato all’analogico. Era un modo diverso di guardare e di fotografare, non soltanto dal punto di vista tecnico. Cosa è cambiato in questo lavoro?
Il passaggio dall’analogico al digitale è stato effettivamente un cambiamento epocale, e il lavoro del fotografo pubblicitario ha vissuto momenti difficili. C’è stato un periodo in cui si confondevano le competenze tra fotografo, fotoritoccatore e stampatore: non si sapeva dove finisse una competenza e dove cominciasse l’altra, per esempio chi dovesse fare la conversione in quadricromia prima della stampa, e solo oggi si sta arrivando a una definizione. Attualmente il ruolo del fotografo dipende molto dai clienti: ci sono casi in cui il fotografo fa le foto in un set in cui sono presenti anche l’agenzia o il cliente che, finito lo shooting, si occupano della postproduzione e della stampa. Ma in generale l’esigenza del cliente è sempre più quella di vedersi consegnare un prodotto finito: in questi casi il fotografo, con il suo studio, si occupa di tutto, anche della produzione del cromalin in quadricromia, ossia il documento ufficiale che viene approvato e mandato in stampa.
Quali caratteristiche deve avere oggi un fotografo perché il brand decida di affidargli la rappresentazione dei suoi prodotti? Deve avere una sua cifra stilistica o un segreto tecnico?
Dal punto di vista tecnico il fotografo deve avere un’estrema sensibilità alla luce che permette di valorizzare al massimo i materiali e la lavorazione, che per i brand italiani è sempre la priorità assoluta. Poi si richiede una collaborazione sulla creazione dell’immagine, ma questo dipende dal tipo di foto che si fa: possono essere foto pubblicitarie in cui è richiesto un approccio emozionale, e in cui dunque è più importante l’aspetto creativo rispetto a quello tecnico, mentre nei cataloghi si richiede più la valorizzazione del particolare, e questo richiede anche una certa competenza sulle qualità specifiche dei diversi materiali. Tutto il processo che precede la creazione di un’immagine richiede la capacità di accompagnare il cliente nel mettere a fuoco ciò che vuole: si tratta di una delle sfide più difficili e stimolanti, che deve fare i conti con una cultura visiva che è molto cambiata in un’epoca di sovraesposizione alle immagini, e con moodboard pieni di idee e ispirazioni raccolte in quel bacino infinito che è il web.
Parlando di qualità specifiche dei materiali, qual è la tipologia di accessori più complessa da fotografare?
Sicuramente gli orologi, che sono composti da tanti materiali diversi: c’è una parte di metalli che riflettono la luce, i quadranti che hanno bisogno di un trattamento particolare, e tutte le varianti dei materiali dei cinturini. Oggi è prassi comune, per una questione di tempi e di economie, che un orologio venga fotografato in pezzi e poi montato in postproduzione: uno scatto per i metalli, uno per il quadrante, uno per il cinturino, e poi si assembla. Ma lo stesso può succedere con gioielli particolarmente elaborati e complessi, in cui ogni dettaglio deve avere il giusto fuoco. La mia formazione classica, legata alla pellicola, mi fa usare molta cautela in questa prassi: tendo sempre a far sì che l’immagine sia realistica malgrado la postproduzione, non forzo mai il limite perché il rischio è che la fotografia diventi una specie di rendering, magari tecnicamente perfetto ma molto freddo. E non si può ingannare chi guarda, che spesso ha l’occhio molto allenato, perché se l’effetto finale è quello di un disegno e non di una fotografia la postproduzione è la prima cosa che si nota.
Realismo e approccio classico, dunque. Ma bastano per mettere al riparo dal rischio di banalizzare, appiattire o sminuire oggetti di altissimo valore, che nella realtà stimolano diversi sensi ed emozioni?
Il rischio di banalizzare il prodotto con una foto dipende solo in parte da questioni tecniche, molto invece dal tipo di rapporto che si instaura tra il fotografo e il cliente, che spesso hanno visioni diverse. Il fotografo tende a interpretare l’oggetto attraverso la luce, e ne restituisce una versione che può essere molto suggestiva ma andare a scapito della perfezione, che invece è fondamentale agli occhi di chi quell’oggetto l’ha creato. Quindi bisogna capirsi e fare scelte che sono frutto di una dialettica. Io posso pensare che certi riflessi valorizzino il materiale lucido, ma se per il cliente invece lo appesantiscono, quei riflessi andranno ripensati o eliminati. Una problematica importante – questa sì, tecnica – può sorgere con il grande formato: erroneamente si è portati a pensare che più le immagini sono grandi, più sia facile estrapolare diversi dettagli da un unico scatto. In realtà estrarre dei dettagli da un’immagine è controproducente perché risulteranno piatti e con una luce non ottimale: è sempre meglio realizzare diversi scatti dedicati a ciascun dettaglio.