Necessario e multidisciplinare, l’ecodesign è un approccio sempre più affermato nell’ambito del packaging. Ma cosa contiene davvero questa formula, dal pensiero creativo alla produzione fino allo smaltimento? E come evitare che il termine si trasformi, nella percezione comune, in una buzzword vuota al pari di tante altre dichiarazioni d’intenti? Ne abbiamo parlato con tre esperti internazionali: Sylvia Vitale-Rotta, Founder & CEO di Team Créatif Group, James Pryor, Co-Founder & Creative Director dell’agenzia Touch, e Sara Limbo, Professoressa associata dell’Università Statale di Milano.
Di Roberta Ragona | Su PRINTlovers 87
È nella direttiva europea Energy-related-Products del 2009 (Direttiva 2009/125/CE) che va ricercata l’origine del termine “Ecodesign”. La direttiva fa riferimento alla progettazione delle apparecchiature elettroniche in termini di ottimizzazione delle prestazioni a parità di qualità funzionali: un principio cardine dall’ecodesign anche nella sua accezione attuale ed estesa a diversi ambiti, tra cui quello del packaging, basato su valori misurabili e utilizzabili come kpi di sostenibilità aziendale. E col lancio della nuova tranche di Horizon Europe – il programma-quadro europeo per la ricerca e l’innovazione – il tema si conferma come una pressante necessità. Abbiamo fatto il punto sullo stato dell’arte con tre professionisti con punti di vista complementari sul settore, dal design alla ricerca scientifica, dalla comunicazione al quadro normativo di riferimento: se c’è un ambito, infatti, che trova nella multidisciplinarietà la sua cifra distintiva è proprio quello dell’ecodesign.
Ecodesign: a quali domande risponde e quali sono i mercati che ne fanno maggiore richiesta?
James Pryor — Il nostro approccio al design è basato sulla scienza. Usiamo strumenti di life cycle assessment per valutare lo stato di fatto in termini di impronta ecologica, risorse idriche, energia, degradabilità, e usiamo questi dati come base di comparazione per i profetti futuri. I brand con cui lavoriamo sono concentrati su due aree in particolare. La prima sono i materiali difficili da riciclare, per cui non esiste una gestione dell’end-of-life. Un esempio sono i packaging in plastica flessibile come quelli degli snack: c’è una spinta forte sulla ricerca di alternative. La seconda sono prodotti in cui il packaging è responsabile della maggioranza dell’impronta ecologica. Se per settori come l’industria casearia il tema è la produzione, nel caso della birra è il packaging, con i costi di produzione e distribuzione e l’impronta ecologica di vetro spesso e pesante. C’è spazio per un lavoro di ottimizzazione.
Sylvia Vitale-Rotta — Tutti i paesi europei sono focalizzati sul tema. Nazioni come la Germania ci lavorano da più tempo, il che significa filiere di riciclaggio e ricerca sui materiali più avanzate, per cui la spinta è ad andare oltre. Non siamo al punto in cui i consumatori smettono di comprare prodotti con packaging non riciclabili, ma ci avviciniamo al momento in cui i brand riceveranno sanzioni economiche se non dimostrano di stare lavorando al tema. Cambiare una linea di produzione richiede anni, il momento per pianificare questi cambiamenti attraverso l’ecodesign è ora.
Sara Limbo — Negli ultimi anni c’è stato un cambio di velocità per le aziende. La ricerca e l’università si sono fatti carico della ricerca di soluzioni, per farsi trovare pronti dal mercato con dei materiali testati e affidabili e ready-to-market. Uno dei ruoli dell’ecodesigner in questo momento è anche creare parametri per la comparazione oggettiva delle diverse soluzioni, che rispondano ai criteri di ripetibilità del dato scientifico. Quando si parla di sostituzione di materiali dal punto di vista del tecnologo alimentare questo si traduce anche nella valutazione dell’impatto di questi materiali sulla reale shelf-life del prodotto.
Quando si può parlare di eco-innovazione nel packaging?
James Pryor — Gli esempi di redesign più radicale vengono dagli alimenti secchi e dai prodotti per la pulizia e la cosmesi. Il packaging bag-in-box contiene un sacchetto non riciclabile, il prodotto e tantissima aria, come tra scatola e sacchetto: due strati di packaging e volume eliminabile. Stiamo lavorando in due fasi: la prima è togliere l’aria e il packaging superfluo non riciclabile e usare i volumi in modo efficiente; la seconda è ripensare la logistica eliminando il packaging, così che il consumatore non sia responsabile del riciclo e i brand non debbano occuparsi di acquisto e lavorazione del packaging. L’altro esempio è il settore cosmesi e prodotti per l’igiene, che sostiene inutilmente i costi di stoccaggio e spedizione di litri e litri d’acqua. Eliminando l’acqua e producendo prodotti solidi o in tab, si apre la possibilità di rivoluzionare il packaging a parità di sicurezza del prodotto.
Sylvia Vitale-Rotta — I consumatori in questo momento sono confusi, acquistano un prodotto pensando che sia sostenibile ma in realtà non hanno a disposizione informazioni trasparenti per fare un acquisto ragionato. Come eco-designer abbiamo il dovere non solo di progettare secondo i principi dell’economia circolare, ma di comunicare con chiarezza questi principi ai consumatori, perché possano fare scelte giuste.
Sara Limbo — Il paradosso dei decenni passati è che la ricerca sulla plastica ha prodotto talmente tanti prodotti che si è dato per scontato a lungo che ci fosse un materiale plastico per qualunque esigenza, con proprietà barriera di tutti i tipi. Adesso ci stiamo rimettendo in gioco sulla ricerca dei materiali, ricreando quel ventaglio di opzioni a disposizione delle aziende a partire da materiali e processi nuovi. La richiesta a livello normativo è di ridurre i materiali da smaltire: si tratta di ridurre il numero di variabili generando una filiera vantaggiosa per tutti, anche economicamente.
Ci sono degli esempi particolarmente significativi, dall’idea creativa allo sviluppo in tutta la filiera?
James Pryor — Un esempio è il lavoro che stiamo facendo con Loop e Terracycle per diversi brand, tra cui Haagen-Dazs. Abbiamo sviluppato un contenitore che può essere riutilizzato sino a cento volte, il contenitore in acciaio a doppia parete mantiene il gelato alla giusta temperatura e fa sì che lo strato superiore si sciolga più velocemente di quello inferiore, così da avere il gelato alla consistenza perfetta, e l’isolamento a due strati lo rende facile da maneggiare. Ha un’impronta ecologica molto inferiore al packaging single-use, è 100% riciclabile e monomateriale. Risponde ai criteri dell’economia circolare e funziona anche in termini di posizionamento del brand: durante il primo mese di lancio abbiamo avuto più di 2.4 miliardi di menzioni sui social media, ed è il prodotto più popolare della sezione grocery di Loop negli Stati Uniti.
Sylvia Vitale-Rotta — Una case history che amiamo è un lavoro realizzato per Volvic. Da uno studio sui consumatori senior è emerso che la bottiglia da un litro e mezzo era difficile da maneggiare, causando problemi alle articolazioni. L’abbiamo riprogettata con una struttura più resistente e facile da usare che impiega meno plastica. Questo successo ha incoraggiato Danone ad adottare più spesso questo approccio nel proprio design di prodotto. È un esempio di come un design che tiene conto delle necessità di tutti porti anche alla realizzazione di prodotti più sostenibili.
Sara Limbo — Stiamo lavorando su progetti non ancora pubblici con aziende che stanno ottimizzando le proprie soluzioni di packaging per prodotti alimentari, per cui il nostro ruolo è sia aiutarle a trovare nuovi materiali, sia individuare le criticità della filiera dalla produzione allo scaffale. Stiamo lavorando su materiali esistenti per aumentarne le prestazioni di confezionamento e conservazione, e collaborando anche con le aziende che producono imballaggio nello studio e sviluppo di soluzioni riciclabili e compostabili, arrivando quindi a materiali semplificati, con fine vita più semplice ma che garantiscano l’attuale qualità.
Se chiede a un consumatore medio qual è secondo lui la fonte più grave di inquinamento, risponderà la plastica. Ma ci siamo accorti durante quest’ultimo anno che la plastica risponde anche a delle esigenze di protezione e conservazione per cui ancora non sempre sono già disponibili delle alternative adatte a tutti i contesti. Lo spreco di cibo è un problema serio tanto quanto quello dello smaltimento della plastica, per cui secondo me sarà sempre più importante che il lavoro dell’ecodesigner sia affiancato da quello degli esperti di comunicazione, in grado di veicolare al consumatore le giuste informazioni sui materiali, sul loro ciclo di vita, sul giusto smaltimento e anche su quali sono i giusti contesti d’uso dell’uno o dell’altro, perché possa fare scelte corrette e consapevoli.
Quella dell’ecodesigner è una figura professionale sempre più richiesta. Quali competenze deve avere?
James Pryor — Gli ecodesigner devono avere la capacità di prendere i valori di brand e i desideri del consumatore e trasformarli in un prodotto tangibile, ma a questo devono affiancare un bagaglio multidisciplinare. Alla creatività si affiancano conoscenze ingegneristiche e di scienza dei materiali, di logistica, psicologia del consumo, marketing, legislazione, tutta la catena del packaging e dell’infrastruttura. Un ecodesigner deve conoscere i principi dell’economia circolare e utilizzarli in maniera creativa.
Sylvia Vitale-Rotta — Una delle differenze principali della formazione degli ecodesigner è la loro specializzazione in ambiti specifici. Per molti anni il design strutturale è stato realizzato da professionisti interni alle aziende che producono packaging, i quali erano in possesso di tutte le competenze sui materiali e i processi per lavorare in autonomia. Sarà sempre più comune lavorare in team con altre realtà – come quella di Team Créatif in Francia o Touch in UK – perché il mondo degli ecomateriali è sempre più complicato e le variabili da considerare, che siano l’aspetto produttivo o gli studi delle abitudini dei consumatori, saranno sempre più diversificate. Non possiamo poi non affrontare il tema dello spreco generato da packaging e logistica poco ragionati. Se un prodotto finisce in discarica prima di arrivare alla vendita inquina due volte, e nell’ultimo anno abbiamo avuto sufficienti esempi dei problemi legati alla logistica per capire che anche questa è un’area di lavoro in cui l’apporto dell’ecodesign sarà fondamentale.
Sara Limbo — L’ecodesigner deve avere competenze diverse, prima fra tutte nell’ambito della sicurezza dei materiali. Quando si parla di sostituzione di materiali è importante colmare il vuoto di conoscenza sui comportamenti dei materiali una volta inseriti nel contesto reale in cui i prodotti devono essere realizzati, venduti e utilizzati. Nel packaging alimentare questo si traduce in una conoscenza degli alimenti, per evitare di realizzare packaging sostenibili ma che non tengono conto delle esigenze del prodotto, traducendosi in food waste. Il lavoro di un ecodesigner è un lavoro di team, che si affianca a professionisti quali l’esperto di logistica, il tecnologo, l’esperto dei materiali. Essere consapevoli di queste variabili consente di controllare l’evoluzione della qualità nell’arco del tempo, prevederla e costruire dei meccanismi di modellazione e previsione. È necessario l’uso di strumenti di life cycle assessment, un approccio quantitativo che consenta di confrontare e comparare numericamente gli impatti generati da una soluzione rispetto ad un’altra. Noi cerchiamo di formare professionisti che abbiano questi strumenti, con la prospettiva che lavorino in team con altre discipline come l’economia o il marketing, che permettano di prevedere i movimenti della società.
Normative ambientali: quali sono le più importanti a livello internazionale e come influiscono nel processo
di progettazione?
James Pryor — Quando si lavora sul design strutturale, le soluzioni devono essere future-proof: se ben realizzato non avrà necessità di modifiche per cinque o dieci anni. In Europa ci sono diverse norme specifiche sul packaging. Abbiamo visto una crescita delle EPR, le Extended Product Responsibility fees, in cui gli introiti delle tasse di gestione finanzieranno l’infrastruttura per lo smaltimento, con l’obiettivo di arrivare al riciclaggio di tutti i materiali che entrano nel sistema. Questa prospettiva impatta su molti dei nostri clienti, siamo al lavoro per ridisegnare packaging e filiere, perché l’entrata in vigore delle leggi li trovi pronti con prodotti sostenibili in linea con le richieste. L’altro grande cambiamento di paradigma è la tassazione per la carbon footprint. Questi cambiamenti sono trasversali a tutti i mercati: negli Stati Uniti sono i singoli stati che cominciano a introdurle. La Francia adotterà presto una legge sull’eliminazione dei packaging single-use, e avrà prodotti sfusi disponibili in tutti i supermercati oltre una certa dimensione. Se progetti un prodotto che deve vivere in quel mondo, devi disegnarlo con la consapevolezza di cosa riserva il futuro.
Sylvia Vitale-Rotta — In aggiunta a questi grandi progetti di natura strutturale che richiedono cambiamenti sostanziali, ci sono tanti fattori su cui lavorare. Molti dei nostri clienti stanno riducendo gli inchiostri utilizzati sul packaging o passando a inchiostri di origine vegetale. I packaging premium vengono realizzati con nobilitazioni in oro o argento che usano meno prodotto, perché non tutti i mercati hanno l’infrastruttura per il riciclaggio di prodotti nobilitati con foil metallico. Abbiamo visto anche una riduzione significativa dell’uso di vernici lucide rispetto agli anni precedenti. Sono tutte azioni che possono essere intraprese subito e vanno nella direzione della normativa, ma con tempistiche più brevi dei cambiamenti sistemici.
Sara Limbo — L’ambito normativo può sembrare lontano dal lavoro di ricerca, ma abbiamo un esempio concreto nel nostro contesto europeo di come l’impianto normativo e l’innovazione si intersechino, ovvero l’EFSA, Autorità europea per la sicurezza alimentare. L’EFSA rappresenta un organo di consultazione in cui la normativa diventa input per la ricerca. In questo momento la ricerca nell’ambito dell’ecodesign del packaging per alimenti si muove in conseguenza delle richieste nate dalle politiche europee in materia di sostenibilità ambientale. Lo sviluppo di soluzioni che portino non solo a rispondere alle richieste ma a superarle è parte integrante del lavoro dell’ecodesigner.
Costi: quanto incide la sostenibilità nei costi da sostenere per i brand, e quanto influenza le loro decisioni?
James Pryor — Dati alla mano, un uso efficiente dei materiali e una filiera che accorcia la distanza tra produzione, vendita e consumo crea risparmi significativi. L’errore è stato parcellizzare il pensiero sui costi del packaging, mentre è un costo che va visto nella sua totalità. Quando aumentiamo l’efficienza e diminuiamo lo spreco diventiamo più profittevoli. L’Ellen MacArthur Foundation, con cui collaborano molti dei nostri clienti, ha calcolato che passare all’economia circolare significa più di 600 miliardi di dollari di risparmio in costi energetici, di risorse, tecnologici. La mentalità dei brand è cambiata, ci sono molti meccanismi che agevolano queste innovazioni tramite incentivi fiscali e agevolazioni finanziarie. Inoltre sanno che il cambiamento è inevitabile se non vogliono incorrere in sanzioni economiche in futuro. Il packaging è visto come un asset, non un costo inevitabile per stare sul mercato.
Sylvia Vitale-Rotta — I brand devono anche tenere conto dei rischi connessi alla perdita di quote di mercato. Abbiamo già visto esempi di cambiamento di abitudini dei consumatori, in cui una fedeltà al brand che sembrava inamovibile si è spostata verso marchi percepiti come più sostenibili. Quello che ora è un costo, presto sarà un obbligo di legge, e il prezzo per recuperare il tempo perduto e recuperare quote di mercato strappandole ai loro competitor che sono stati più veloci ad adattarsi sarà decisamente più alto.
Sara Limbo — Chi svolge attività di ricerca nell’ambito del food packaging ha la possibilità di vedere il dibattito sull’innovazione da un’altra prospettiva. Per le aziende che hanno intrapreso un progetto di ricerca con l’università questo investimento produce un vantaggio di comunicazione, conoscenza e risorse: spesso internamente alle aziende non sono presenti figure in grado di tradurre certe spinte in progetti, che invece è il risultato che si ottiene affiancandosi a realtà di ricerca. È anche una soluzione di contrasto al greenwashing, perché fornisce soluzioni basate sui dati, che consentono di far arrivare al consumatore l’informazione di uno sforzo tecnologico ed economico. Sono convinta che questo sia il momento per le aziende per investire in innovazione, anche approfittando delle possibilità offerte dall’Unione Europea in termini di finanziamenti e risorse per l’innovazione attraverso il supporto di università e enti di ricerca pubblici e privati.
— James Pryor
Co-Founder & Creative Director di Touch
Con oltre 20 anni di esperienza nell’industria del packaging design e di prodotto, James Pryor ha contribuito a realizzare innovazioni significative a livello globale per realtà del calibro di Unilever, P&G e Nestlé. Dopo essersi occupato di design sia all’interno di agenzie che come designer in-house, nel 2008 ha fondato con Guy Harrison “Touch”, agenzia specializzata nell’innovazione di design sostenibile che progetta soluzioni avanzate per brand come Häagen-Dazs, Highland Spring e Carlsberg.
— Sylvia Vitale-Rotta
Founder & CEO Team di Créatif Group
Nata in Tanzania da genitori italiani e cittadina del mondo, Sylvia Vitale-Rotta ha fondato Team Créatif a Parigi nel 1986 insieme a Nick Craig. Con una presenza in 52 paesi del mondo – dal Brasile agli Stati Uniti passando per Singapore – Team Créatif Group si occupa di branding, packaging design, retail design e architettura (con Value Market) e di global communication e brand content (con Shortlinks) per clienti multinazionali. È stata presidente della giuria della sezione Design dei Cannes Lions nel 2009, ha tenuto una Ted talk sul tema “Packaging is for People” nel 2016, è membro della giuria dei Red Dot Awards dal 2016 e ha ottenuto una serie di riconoscimenti per il suo lavoro trentennale nel design, non ultimo dei quali l’Ordine nazionale al merito della Repubblica Francese.
— Sara Limbo
Professoressa associata Università degli Studi di Milano
Sara Limbo è professoressa associata del Dipartimento di Scienze per gli alimenti, la nutrizione e l’ambiente dell’Università Statale di Milano, esperta in food packaging ed ecodesign ed esperta nel settore del confezionamento e condizionamento degli alimenti. La sua attività scientifica si è sempre tradotta nella pubblicazione su riviste di carattere internazionale del settore scientifico, e in ambito editoriale ha pubblicato nel 2010 in collaborazione con Luciano Piergiovanni “Food Packaging: Materiali, tecnologie e qualità degli alimenti”, edito da Springer.