Di Chiara Bissolo | su PRINTlovers 97
Martina Vincenti perde la testa per la tipografia già durante gli studi di grafica pubblicitaria. Cerca, restaura e cataloga caratteri mobili di legno e metallo per il suo archivio, il laboratorio de "La Tipografa Toscana". Accantona il pc per il tirabozze, la pedalina e una Hohner. Si innamora della stampa manuale, dei gesti lenti, del valore che il processo analogico dà alla progettazione e al design finale. Nei poster che realizza l’inchiostro imprime la potenza delle parole sulla carta e al tempo stesso racconta e conserva la storia che appartiene ai Tipi che ha messo sotto torchio. Ogni copia è unica, ogni stampa è studio, precisione e pazienza. I suoi lavori sono fatti in collaborazione con artisti, musicisti e poeti.
Come ti sei avvicinata al mondo della stampa a caratteri mobili?
Ho studiato grafica e tecniche di stampa. Sono sempre stata affascinata dalla tipografia, tanto che nel mio modo di progettare i caratteri tipografici aveva un ruolo fondamentale. Ho lavorato per Oliviero Toscani e nel suo studio l’attenzione per l’aspetto tipografico era altissima. Per sette anni, poi, ho insegnato grafica e tecniche di comunicazione multimediale negli istituti superiori, alternando l’incarico con il mio lavoro da designer freelance. Sono una persona curiosa, sempre in cerca di stimoli e un giorno, cinque anni fa circa, ho partecipato a un workshop di stampa a caratteri mobili. Così, improvvisamente, tutto ciò che avevo studiato sui libri è diventato tangibile. Sono rimasta folgorata dalle macchine e dai caratteri, ma più di tutto mi ha colpito, in modo sorprendente, realizzare quanto “un mestiere che non esiste più”, con tutte le difficoltà dell’analogico, avrebbe potuto modificare e stimolare il mio modo di progettare. Ho iniziato a considerare il design da un altro punto di vista e, per quanto escludessi di intraprendere quella strada, quel giorno cambiò tutto. Dopo pochi mesi avevo già il mio primo tirabozze, un alfabeto di legno pieno di tarli e una cassettiera malmessa destinata alla discarica (a pensarci ora mi viene da ridere).
Quale valore storico ritieni che abbiano, oggi, i caratteri tipografici per l’Italia?
I caratteri mobili raccontano la storia del nostro Paese. Ripercorrono le varie epoche testimoniando tendenze, stili, mode. Negli anni ‘80 e ‘90 del Novecento ne sono stati buttate tonnellate. Il piombo è finito in fonderia e i caratteri sono diventati, ahimè, pallini da caccia. I Tipi di legno spesso sono finiti nei camini. Le nuove tecniche di stampa imponevano alle tipografie di far spazio a nuove macchine, per questo gran parte del patrimonio tipografico esistente è andato perso. Non tutto però, per fortuna. Il collezionismo non fa per me: io cerco caratteri per utilizzarli e per inserirli in un nuovo contesto in cui il design moderno si intreccia con attrezzature in uso secoli fa. Quello che mi interessa, oltre a salvare caratteri e far crescere il mio archivio, è raccogliere informazioni sulle tipografie che hanno usato questi materiali prima di me. Dietro ogni tipografia che chiude ci sono storie che si intrecciano, famiglie cresciute tra compositoi e cassetti pieni di caratteri. Questo è ciò che più mi lega al progetto.
Che potenziale ha la stampa tipografica oggi?
Chi si occupa di stampa a caratteri mobili conosce bene le difficoltà legate a questo mestiere. La stampa è solo l’ultima tessera di un mosaico assai più articolato: caratteri, macchine e attrezzature devono essere trovate, restaurate e allestite all’interno di uno spazio di lavoro ben organizzato. La sfida è tutta mia, ma ce n’è un’altra importante allo stesso modo: si tratta di coinvolgere le persone e portarle nel mio mondo, facendole guardare attraverso i miei occhi. Chi acquista una stampa artigianale deve essere coinvolto nel processo di produzione per poterne apprezzare tutte le sfaccettature. Mi rivolgo a un mercato di nicchia, ne sono consapevole, ma sempre più persone favoriscono la possibilità di ritrovarsi in una dimensione più piccola, abbracciando progetti che prediligono la lentezza dell’analogico alla velocità del digitale.
Quali difficoltà hai incontrato nel tuo processo di raccolta, analisi e identificazione?
In questo mestiere è tutto molto complesso e, contemporaneamente, tutto molto stimolante. Ricerca, restauro, identificazione e archiviazione sono fasi tanto lunghe quanto faticose. Spesso sono immersa nella polvere. In molti casi, le fonderie e xilografie italiane producevano i caratteri copiando il disegno da quelle francesi o tedesche, per esempio, e di conseguenza identificare i caratteri e risalire alla loro provenienza non sempre è così immediato. I campionari sono molto difficili da trovare, ma fondamentali per ricostruire la storia dei Tipi. È un lungo lavoro di ricerca e studio, che richiede pazienza e attenzione. Riuscire a collocarli nel tempo, però, è una delle soddisfazioni più belle.
Nella fase lavorativa, hai accantonato completamente l’utilizzo di strumenti digitali?
Ho una versione di Adobe Illustrator del 2016, direi quindi di sì. Il digitale oggi mi serve per raccontare il mio mestiere attraverso i social network e per piccoli interventi legati ai progetti più complessi. Per il resto, in modo molto naturale ho sentito il bisogno di progettare partendo dal mio archivio. Toccare una polizza di caratteri, osservarla, riconoscerne l’anatomia, fa sviluppare una sensibilità diversa nei confronti del progetto. La parola è davvero tridimensionale e questo influisce molto sullo sviluppo creativo.
Come si crea una stampa?
A livello tecnico eseguo una serie di passaggi ben definiti: scelta dei caratteri, preparazione della forma da stampa, inchiostrazione e stampa. Detto così sembra facile, ma in realtà la complessità parte proprio dall’idea e dall’analisi delle difficoltà che seguiranno per riprodurla. Banalmente, nessuno di noi è abituato a usare un alfabeto che ha un tot di consonanti o vocali. Vi è mai capitato di scrivere una mail e interrompervi improvvisamente perché non avete più “a” minuscole? Ecco, progettare in tipografia significa anche tener conto di alcune difficoltà inesistenti nei caratteri digitali, come l’assortimento o l’usura di un alfabeto. Quando lavoravo come grafica nel digitale, partivo sempre dalla definizione del formato di stampa. Adesso non è più così. Spesso, nella creazione dei miei poster, scelgo il carattere che ritengo più adatto e definisco il formato solo in un secondo momento (anche questa cosa è legata alla disponibilità e alla dimensione dei caratteri presenti nel mio archivio). L’idea parte sempre da una serie di bozzetti. In giro ho sempre un taccuino sul quale schizzo, disegno, prendo appunti. Alcune volte le idee sedimentano lì per mesi, altre esplodono immediatamente.
Le scuole di design e le accademie italiane, secondo te, danno i giusti spazio e importanza all’enorme tradizione tipografica italiana?
Negli ultimi anni, per fortuna, alcune accademie hanno introdotto corsi di type design molto interessanti. Lo studio del carattere tipografico deve necessariamente passare dal mondo dell’artigianato per essere compreso nel dettaglio.
Come ti piacerebbe che evolvesse il laboratorio?
Sogno qualche metro quadrato in più (ma senza esagerare) per organizzare meglio il mio archivio. Vorrei continuare a collaborare con artisti, musicisti e poeti. Mi piace lo scambio di esperienze e sono fermamente convinta che questo tipo di contaminazioni portino valore al progetto.
ALFALEGO
«Ho dei ricordi nitidissimi della mia infanzia. Ricordo il Meccano, Forza Quattro, i Cavalieri dello Zodiaco. Non ho mai giocato con le bambole. Mai. Barbie e Ken per me son sempre stati due sfigati. Ricordo la grafica dei giochi Arcade e le musichette che accompagnavano ogni partita. Ricordo i mattoncini Lego dimenticati sul tappeto che puntualmente calpestavo a piedi nudi. Nostalgia? Forse sì. E se questi ricordi del passato si ritrovassero tutti dentro ad un solo poster? Vi presento A L F A L E G O, il progetto più difficile e più entusiasmante realizzato fino ad oggi, ispirato ai pixel e alla tipografia a 8 bit. Un po’ di numeri: la matrice di stampa dell’alfabeto è stata creata con 1.570 Lego Dots (per ogni colore ho realizzato una forma diversa). 7 colori, quasi 2 mesi di lavoro, 50x70 cm il formato di stampa».
MARTINA VINCENTI
Martina Vincenti, in arte La Tipografa Toscana, nasce nel 1985 e studia Grafica pubblicitaria, specializzazione in Tecniche delle industrie grafiche. Il primo lavoro è nello studio di Oliviero Toscani come graphic designer. Poi lavora come designer, intervallando le collaborazioni con agenzie di comunicazione con l’insegnamento presso istituti superiori. Nel 2019 perde la testa per la tipografia, molla il digitale e torna a Gutenberg. Si stampi chi può.
PANZANELLA
«Sono nata e cresciuta in Toscana. Amo la mia terra e le mie radici. Amo la campagna. Amo la Panzanella. Amo l’odore del basilico che entra dalla finestra di camera mia. Non rinuncerei mai al profumo del pane fatto in casa e nemmeno ai pomodori che maturano al sole del mio orto. Ogni progetto è una storia da raccontare. In questo poster sono contenuti caratteri di legno e piombo provenienti da ogni angolo d'Italia, di epoche e stili diversi, proprio come tanti ingredienti che compongono una ricetta».