Approfondimenti

La stampa, “Cattedrale dell’epoca moderna”

Di Lorenzo Capitani | Su PRINTlovers 100


La storia della stampa è punteggiata da una serie di piccole invenzioni anonime che curiosamente sono state fatte in luoghi diversi da persone diverse spesso nello stesso giro di anni, a dimostrazione che lasciare il proprio segno, in modo indelebile e seriale, è in qualche modo connaturato all’uomo e nasce da un livello culturale simile. In particolare, dopo l’anno Mille lo sviluppo di qualcosa di simile a una tecnologia che potremmo chiamare a caratteri mobili, ovvero a blocchi giustapposti per comporre un grafismo inchiostrati e usati per imprimere un supporto, è comune, e pressoché contemporanea, a quasi a tutte le aree del mondo in quel momento sviluppate. Poi ci sono nomi e cognomi certi, come Gutenberg, Senefelder, Mergenthaler o John Warnock che segnano cambiamenti epocali: non è un caso che Marshall McLuhan parli di “Galassia Gutenberg” nel suo saggio del 1962 per descrivere l’impatto dirompente prodotto dal cambiamento della coscienza umana provocato dall’avvento del libro stampato. Secondo McLuhan l’invenzione della stampa da sola ha portato alla nascita del nazionalismo, del dualismo, alla dominazione del razionalismo, all’automazione della ricerca scientifica, alla standardizzazione delle culture e all’alienazione degli individui. A differenza di altre tecnologie la storia della stampa è anche la storia dei suoi prodotti: la storia della stampa è anche la storia di tutto quello che è stato stampato – dal Sutra del Diamante stampato in Cina l’11 maggio 868 alla Bibbia di Gutenberg, dall’indice dei libri proibiti al primo numero del Times stampato in rotativa la notte tra il 28 e il 29 novembre 1814 –, ma anche di quello che vi ruota intorno, dai tipi di caratteri all’uso dei computer per il desktop publishing, ai libri digitali. Insomma, per dirla con Hugo, la stampa è la cattedrale dell’epoca moderna.

Sigilli & co.

L’essere umano da sempre sente un’irresistibile spinta a riprodurre segni su diversi supporti come manifestazione di sé, delle sue idee, della sua arte. Le grotte dipinte più di 35.000 anni fa ne sono la testimonianza. Forse non sono stampa in senso stretto perché le mani impresse su quei muri in realtà sono stencil, così come gli animali o le scene di caccia sono pitture. Eppure c’è in nuce una delle idee fondanti della stampa, ovvero la serialità, la riproduzione in copie multiple dello stesso soggetto. In questo senso, anche se lo potrebbero essere tecnicamente, l’impressione di un sigillo, che sfrutta la sua unicità per essere garanzia di autenticità, non è stampa, come i sigilli usati in Cina dalla dinastia Shang del II millennio a.C., composti in una sorta di telaio per caratteri mobili e usati per marchiare durante la fusione dei bronzi. Ciò che conta è l’intento, la componente culturale che li separa dalla stampa, non tanto l’uso che se ne vuole fare, ma il significato che gli si vuol dare. In Cina sigilli di legno con ben 120 caratteri erano già usati nel III secolo a.C. per la stampa su ceramica e i taoisti usavano sigilli con scopi religiosi per imprimere caratteri terapeutici sulla carne delle persone malate o per timbrare il cibo e scongiurare le malattie, tanto che già nel V secolo d.C. questi sigilli furono usati per creare centinaia di immagini del Buddha. Anche Plinio il Vecchio descrive nella Storia Naturale la tecnica egizia di stampare colori sui tessuti per mezzo di blocchi di argilla.

Dall’Oriente i primi antenati della stampa

Ma il primo vero esempio di uso di una tecnica assimilabile in qualche modo alla stampa per comunicare e non per decorare o marchiare sono i testi religiosi buddisti del I secolo a.C. cui veniva dato il valore di talismano in grado di allontanare gli spiriti maligni: copiando e preservando questi testi, i buddisti potrebbero accumulare meriti personali; di qui l’idea di replicare i testi utilizzando blocchi di legno fin dal VII secolo, tanto che il monaco Xuanzang dal 658 al 663 stampò un milione di copie dell’immagine sacra di Puxian Pusa da distribuire ai devoti. Il testo più antico contenente una data di stampa è una copia del Sutra del Diamante il cui colophon recita: “realizzato […] il 13 della quarta luna del nono anno di Xiantong” (cioè 11 maggio 868, NdR). Prima dell’anno Mille in Cina si utilizzavano i blocchi di legno per stampare storie, opere filosofiche, enciclopedie, raccolte e libri sulla medicina e l’arte della guerra e questa ricca produzione si spiega soprattutto con la diffusione dell’uso della carta, invenzione del 105 d.C tradizionalmente attribuita a Ts’ai Lun, un dignitario della corte imperiale cinese che iniziò a produrre fogli di carta utilizzando brandelli di stoffa usata, corteccia d’albero e reti da pesca. 

Nasce il libro moderno

Parallelamente all’uso della xilografia, la dinastia Song vide anche l’invenzione dei caratteri mobili per comporre i testi da parte di Bi Sheng, un semplice artigiano. Bi usò la porcellana cotta, dopo aver sperimentato il legno che però abbandonò per le nervature visibili nella stampa. Anche se la porcellana non tratteneva bene l’inchiostro Bi utilizzava caratteri mobili, un telaio e una cassa tipografica. La stessa idea, la stessa tecnica, la stessa organizzazione di Gutenberg. La stampa per come la conosciamo non solo era nata ma era già ben diffusa tanto che il viaggiatore coreano Choe Bu osservò durante un suo viaggio in Cina che “anche i bambini dei villaggi, i traghettatori e i marinai sapevano leggere”: eppure perché occorrono la Bibbia delle 42 linee e il Quattrocento europeo per dar vita alla Galassia Gutenberg e alla rivoluzione culturale mondiale della stampa? Perché, come ha scritto Lucille Chia, “i libri stampati erano per coloro a cui non importava veramente dei libri: man mano che il libro si diffondeva, gli studiosi paradossalmente preferivano i manoscritti”. Si diffondevano sì, ma come oggetto da collezione, amuleto religioso, mezzo per conservare conoscenza, non per diffonderla. Gli europei invece, quando ebbero per le mani i libri, nati dalla tecnologia di Gutenberg, con la loro qualità e il loro costo relativamente basso, seppero sfruttarne la portata culturale. Anche gli Arabi, aperti a molte altre novità, con la stampa non ebbero la stessa lungimiranza tanto che la stampa rimase proibita nell’Impero Ottomano tra il 1483 e il 1729, mentre alcune stampe in caratteri mobili arabi furono eseguite già da Papa Giulio II e il più antico Corano stampato con caratteri mobili fu prodotto a Venezia nel 1537.

La rivoluzione di Gutenberg

Ora, che Gutenberg non abbia inventato la stampa in genere, né da zero quella a caratteri mobili, è dimostrato storicamente. Si trattò sicuramente di un processo evolutivo distribuito su più luoghi e su più persone tanto che solo dieci anni prima della celebre Bibbia di Magonza, Procopius Waldvogel stampò due quaderni di 32 pagine in lettere ebraiche, ma non stampò mai nessun libro, così come si attribuiscono stampe a Laurens Janszoon Coster già prima del 1455. L’invenzione di Gutenberg fu l’invenzione di tutta una tecnologia: per primo realizzò i caratteri durevoli in una lega di piombo, stagno e antimonio, inventò un procedimento per fonderli con una precisione mai vista prima, usò un inchiostro a base olio e stampò il libro più importante per la cultura europea dell’epoca e lo fece utilizzando un carattere, il gotico, che imitava il manoscritto in tutti gli aspetti, riproducendone la disposizione delle colonne sulla pagina, che formava un modulo ideale, riconosciuto e apprezzato. Infine, scelse le 42 righe per colonna per ottimizzare la carta. L’impresa fu titanica: fuse 100.000 caratteri e ci mise circa due anni a comporre il testo. Furono impiegati non meno di dodici stampatori con sei torchi. La stampa delle 1282 pagine per i 180 esemplari tirati richiese ben 230.670 passaggi al torchio. Il De Oratore di Cicerone del 1465 è il primo libro stampato in Italia. La tecnologia di Gutenberg era talmente efficiente non solo da soppiantare la copiatura a mano, ma da rimanere sostanzialmente invariata per i 300 anni successivi. Nel frattempo si perfezionò la cassa tipografica, arrivata praticamente invariata fino all’inizio del 1900, disponendo i caratteri su due casse sovrapposte, quella alta, per maiuscole in ordine alfabetico, segni commerciali e la punteggiatura, accentate e doppie, e quella bassa invece, con le minuscole, i numeri e gli spazi. Si migliorò l’efficienza del torchio per far fronte alla sempre più pressante richiesta di libri nonostante la nascita degli Indici dei libri proibiti: liste di titoli, autori, generi, argomenti, proibiti perché ritenuti lesivi degli interessi della Chiesa o dello Stato. Ma soprattutto ci fu una corsa di tutti i tipografi d’Europa, diventati nel frattempo anche editori, a migliorare i propri prodotti stampati, rendendoli anche oggetti funzionali e belli, perfezionando la legatura e disegnando sempre nuovi caratteri. Per stampare bene qualsiasi cosa, finanche le tavole dei logaritmi come quelle elegantissime di Callet del 1793.

L’era del piombo è finita

Fu un volano. Si stima che fino al 1800 siano state stampate quasi un miliardo di copie con una crescita esponenziale di secolo in secolo. È un’industria che produce stampati perché ci sono sempre nuovi lettori. Ogni stampatore cerca il modo di migliorare la propria produttività. Fu la rivoluzione industriale a dare ulteriore velocità a questo volano. Obiettivo: stampare il più possibile a costi sempre minori. Nel 1796 Aloys Senefelder inventa la litografia aprendo la strada alla riproduzione delle immagini in tirature molto più alte, comprese quella a colori, da lui teorizzata nel 1818; un obiettivo su cui si concentrano anche stampatori di altri paesi, come Francia e Inghilterra, tra cui Godefroy Engelmann di Mulhouse che ottenne un brevetto sulla cromolitografia nel luglio 1837, ma già a fine Settecento l’incisore tedesco Jacob Christoph Le Blon nel suo Coloritto descrisse il suo metodo di stampa a quattro colori mezzatinta su rame. Il problema di come riprodurre realisticamente i colori fu risolto nel 1867 dal fisico scozzese James Clerk Maxwell, quello delle equazioni sull’elettromagnetismo, che teorizzò l’uso del ciano, il magenta, il giallo e il nero per riprodurre tutti i colori. Ma la strada alla stampa industriale a 4 colori fu aperta da Hippolyte Auguste Marinoni, ingegnere, editore e politico francese di origini bresciane, che tra il 1888 e il 1889 aggiunse il nero alla stampa inventando la quadricromia. Marinoni ideò anche il formato tabloid per i quotidiani, con il suo Le Petit Journal Illustré. Naturalmente stampato a colori. Nel 1890 fu inventata anche la retinatura. Nel frattempo, Friedrich Koenig aveva realizzato nel 1814 una macchina tipografica piano-cilindrica a vapore installata nella tipografia dell’editore Tom Bensley di Londra, raggiungendo una tiratura di 700-800 copie all’ora che 30 anni dopo, nel 1846, divennero 8.000 quando Hoe costruisce per il Philadelphia Public Ledger la prima rotativa per stampa in bianca e volta. All’inizio le rotative erano alimentate da fogli singoli poi, nel 1863, William Bullock introdusse l’alimentazione a bobina. 

È la stampa, bellezza

Nel 1875 Robert Barclay inventa la tecnica di stampa offset per stampare su stagno, adattata alla carta nel 1904 da Ira Washington Rubel. L’ispirazione gli venne da un incidente. Mentre stampava sulla sua pressa litografica Ira si dimenticò di inserire il foglio nella pressa litografica che stava usando così l’immagine rimase impressa sul caucciù del cilindro che serviva per tenere salda la carta. Quando, accortosi dell’errore, inserì il foglio tra i cilindri, notò che la stampa dal cilindro di caucciù era molto più definita di quella dalla matrice in pietra. Il primo modello fu acquistato dalla Union Lithographic Company of San Francisco nel 1905 ma iniziò ad essere utilizzato solo nel 1907 dopo il terribile terremoto. Negli stessi anni entrano in produzione anche le prime rotocalco: il brevetto è del 1860, ma già nel 1906 girava una macchina multicolore e nel 1912 supplementi stampati a bobina erano in vendita a Londra e Berlino: erano nati i rotocalchi. Nello stesso anno Heidelberg inizia la produzione della Stella modello T per il piccolo formato: ne produrrà 700.000.Il XX secolo è il secolo della stampa sia per la produzione di stampati sia per la velocità con cui innovazioni e invenzioni si susseguono: fioriscono quotidiani nazionali e locali, i giornali escono più volte al giorno e la fame di notizie rende il mondo più piccolo. Anche il libro vede la sua industrializzazione con l’invenzione del tascabile. Negli anni Trenta diversi editori tedeschi e inglesi sperimentano formati pocket e legature morbide economiche semplicemente brossurate. Ancora una volta è un’invenzione diffusa: nel 1931 iniziò Albatross Books in Germania, seguita da Penguin nel 1935 sostenuta dalla capillarità distributiva delle edicole WH Smith & Sons onnipresenti in Inghilterra; nel 1939 Robert de Graaf negli Stati Uniti, collaborando con Simon & Schuster, creò l’etichetta Pocket Books. È la Seconda guerra mondiale che sancisce la consacrazione del tascabile: la stampa a quattro colori e la plastificazione delle copertine sviluppata per le mappe militari resero questi libri accattivanti e resistenti al tempo stesso. Tra il 1943 e il 1947 l’Armed Services Editions stampò più di 1.300 titoli tirando in totale 122 milioni di copie. In Italia nel ’49 partì Rizzoli, seguita da Feltrinelli nel 1955 e da Mondadori che, il 27 aprile 1965, pubblicò il primo Oscar che vendette 120.000 copie solo la prima settimana. Il successo degli Oscar, consolidato nel 1974 con l’arrivo in Italia delle Cameron che Mondadori vide girare negli Stati Uniti e in grado di produrre con un giro di belt un libro finito, da un lato scatenò una corsa ai tascabili da parte di case editrici piccole e grandi, dall’altro aprì alle lunghe tirature e ai grandi formati in nome della produttività. Non bastavano più macchine da 16 e 32 pagine, si arrivò a fine anni ‘90 a roto da 96, piane da 140x160 e rotocalco con luce carta da 3 metri.

Meccanizzazione della composizione

Ma facciamo un passo indietro. Per star dietro alle rotative a squarciare il silenzio delle notti europee e americane, bisognò industrializzare anche la composizione tipografica. Ci pensò Ottmar Mergenthaler che nel 1886 introdusse al New York Tribune la linotype, che permetteva di creare intere linee di caratteri semplicemente battendo i tasti su una tastiera tipo macchina da scrivere. E per “creare” si intende direttamente dal piombo fuso. In questo modo la velocità di composizione passò da 1.000 caratteri/ora della composizione a mano a 8/10.000 caratteri/ora con la linotype. L’inconveniente di questa composizione a righe intere, però, era che, in caso di correzione, occorreva rifare l’intera riga. Nel 1889 Tolbert Lanston propose allora una macchina che formava le righe con la fusione di singole lettere: la monotype. La composizione con la monotype risultava però più lunga. La monotype comparve in Europa all’Esposizione di Parigi del 1900 e fu introdotta in Italia nel 1903, mentre la prima linotype fu usata nel 1897 alla Tribuna di Roma. A metà Novecento il processo di composizione a caldo della linotype viene sostituito con la composizione a freddo. È una rivoluzione: nasce la fotocomposizione. Niente più linee di caratteri fusi al momento, la composizione della pagina è eseguita su una macchina e tramite una fotounità impressa su pellicola: dalla pellicola si potevano più facilmente impressionare le lastre. La prima fotounità si chiamava Lumitype e fu inventata nel 1946 da due ingegneri elettrici francesi, René Higonnet e Louis Moyroud, trasferitisi negli Stati Uniti per trovare qualcuno interessato alla loro invenzione: nasce così la Lumitype Photon prodotta dalla Lithomat a New York in 1949. Il primo libro interamente impaginato con la fotocomposizione si intitolava The Wonderful World of Insects e nella quarta di copertina si legge: “Siamo orgogliosi che il libro sia stato scelto per essere la prima opera composta con questa macchina rivoluzionaria”. La fotocomposizione negli anni Settanta divenne più economica e liberò le energie creative anche di piccole realtà tipografiche: era possibile usare una quantità di font inimmaginabile prima d’allora, si potevano stampare in ogni dimensione ed erano molto più facili da comporre insieme a immagini e grafica. Nel 1963 Pantone mette a punto il sistema di catalogazione dei colori Pantone Matching System, diventato standard internazionale, e nel 1972 DuPont inventa il cromalin per le prove colore soppiantato dalle Indigo solo negli anni 2000.

Il digitale

La svolta elettronica è del 1971, quando Xerox Corporation sviluppa la stampa laser. L’immagine è trasmessa dal laser a un cilindro fotosensibile e, attraverso il toner, impressa sulla carta: chiunque ora può stampare in autonomia. La prima stampante laser da tavolo della Canon LBP-10 è del 1982 e del 1984 la Thinkjet a getto d’inchiostro di HP, ma dobbiamo aspettare gli anni Novanta per la grande diffusione al pubblico del computer e dei modelli a getto d’inchiostro, ad aghi e a sublimazione. Nel 1993 Adobe rilascia il formato pdf che rivoluziona la stampa e apre la via alla digitalizzazione in tutte le fasi. Basta pellicole, cianografiche e basta lastre. La stampa digitale industriale nasce a IMPEX nel 1993 con la E-Print 1000, antesignana dell’HP Indigo 5000, presentata nel 2002 e nata da un’idea di Benny Landa. Poi, Internet e i media cambiano definitivamente la comunicazione, ma la stampa ne subisce i colpi, riduce le tirature, le mega macchine di grande formato si fermano progressivamente così come quelle votate alle lunghe tirature. Resiste e si trasforma, cercando nuovi assetti con il web-to-print e il print-on-demand, cessando così di essere commodity, reinventandosi come puro servizio.


05/04/2024


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