Se il concetto di ‘Consumatore al centro’ è nato negli anni ’50, è solo con internet e la diffusione capillare dello smartphone che si è creata la congiuntura tecnologica e sociale perfetta per l’omnicanalità. Ma che differenza c’è tra multicanalità, cross-canalità e omnicanalità? E come è possibile, per un brand, creare infiniti punti di contatto – tutti interconnessi – con i loro clienti?
Di Lorenzo Capitani | Su PRINT 81
«John Anderton!
You could use a Guinness
right about now».
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Come le sirene Ulisse, così i cartelloni pubblicitari orografici chiamano per nome Tom Cruise nel film del 2002 “Minority Report” di Steven Spielberg. Questa battuta è la sintesi perfetta di quello che oggi chiamiamo omnicanalità. Oggi la scena ambientata nel 2054 — che non c’è nell’omonimo racconto di Philip K. Dick del 1956 da cui è tratto il film — non è più così fantascientifica e la tecnologia è già andata oltre la fantasia: un’azienda a mille miglia da me non solo sa chi sono e cosa ho fatto di recente, ma è in grado di propormi qualcosa che risulta effettivamente di mio interesse. E lo fa sfruttando le tracce che lascio più o meno consapevolmente.
Già Ford, massimo sostenitore della standardizzazione industriale, riconosceva un certo valore alla personalizzazione di un prodotto quando mirava a “produrre una sola automobile perfettamente buona e a basso prezzo, ma assistita da un servizio continuo centrato sul cliente”. È solo negli anni 50 che nasce il concetto di ‘segmentazione’ e si sviluppa la ‘custom centricity’, ma è con Internet e la diffusione capillare dello smartphone (solo in Italia oggi ne abbiamo 1,4 a testa) che si crea la convergenza tecnologica e sociale perfetta. Informazioni e dati sono disponibili e raccolti da mille fonti diverse e il comportamento del cliente può essere codificato e analizzato in tempo reale.
Multicanalità, cross-canalità o omnicanalità?
La personalizzazione ha il cliente al centro e passa per tutti i punti, e sono tanti, in cui è possibile entrare in contatto con lui, ma spesso si tende a semplificare e usare multicanalità, cross-canalità e omnicanalità come sinonimi: in realtà sono step evolutivi di una logica di iterazione che nel tempo è passata da un singolo, il negozio fisico, a potenzialmente infiniti punti di contatto. Con multicanalità si intende, invece, lo sviluppo da parte dell’azienda di più punti di contatto (come social, app, mail, chat-bot…) che arricchiscono il ventaglio dei canali già esistenti, come il classico sito. Il passo successivo è la cosiddetta cross-canalità che presuppone la progettazione di servizi integrati tra più canali (tipicamente due) per lo scambio e l’interazione. Un buon esempio sono i servizi di catene come MediaWorld, Sephora e H&M, che consentono di fare ordini online con il ritiro della merce nel punto vendita, o l’advertising geolocalizzato che punta a spingere gli utenti all’interno di un negozio fisico: non è un caso che il navigatore Waze mostri alcuni negozi e non altri nelle sue mappe.
L’omnicanalità fa un ulteriore passo avanti. Non solo il consumatore è al centro, ma prevede un sistema interconnesso tra tutti i punti di contatto. Vi sono, quindi, trasferimento di dati tra i diversi canali e strategie di contenuto coerenti. In questo modo l’utente può non solo interagire con l’azienda con una molteplicità di modi diversi, ma anche vivere la medesima esperienza su tutti i touch point senza avere interruzioni nel percorso dall’uno all’altro. Quello che ho messo nel carrello sullo smartphone lo ritrovo lì quando accedo via pc. I dati dicono che questa è la prassi: si inizia la navigazione da mobile, e si finalizza l’acquisto da pc soprattutto se si acquistano prodotti costosi.
La comunicazione omnichannel
Oggi il consumatore non distingue più tra online e offline e vuole interagire con un’azienda in molti modi, dal punto vendita al sito internet, dall’e-commerce ai social network, alla pubblicità tradizionale, a seconda di quello che sta facendo. Per seguire il comportamento dei clienti e saper gestire in tempo reale la comunicazione su diversi punti di contatto (offline e online) occorre adottare strategie di marketing basate sui dati. È il caso di Disneyland Paris: dal sito assolutamente responsive (e già questo vuol dire riconoscere il device e adattare forma e contenuti) è possibile pianificare il viaggio fin nei minimi dettagli. Una volta nel parco si può usare l’app My Disney Experience per localizzare e prenotare attrazioni, per avere i tempi di attesa, per prenotare ristoranti, acquistare fast pass e condividere foto e video. Ad abilitare il tutto ci pensa il braccialetto Magic Band che funge da chiave d’accesso a tutti i servizi, dall’hotel ai parchi. In questo modo, ogni istante dell’esperienza con Disney è tracciata, produce e usa dati per customizzare l’offerta.
Questo è un esempio, ma ce ne sono centinaia più o meno raffinati, come UniCredit che, notizia proprio di questi giorni, ha deciso di diventare sempre più digitale per rendere più efficace quella che si chiama la customer journey, ovvero la sua interazione con il cliente. Con il piano strategico Team 23 che prevede un investimento solo sull’IT di 900 milioni anno, la banca punta a «dematerializzare i processi e a lasciare agli sportelli solo la consulenza personalizzata e i servizi ad alto valore per privati e PMI come la consulenza assicurativa e la gestione dei risparmi», spiega Remo Taricani, co-Ceo Commercial Banking Italy di UniCredit. «Tutto il resto si farà con una nuova app che avrà un bacino di utenti di 7,4 milioni solo in Italia». Non solo pagamenti, quindi, ma anche servizi nuovi come l’aggregatore di conti aperti su diversi istituti, una mailbox digitale dedicata agli investimenti e servizi legati a conti correnti e carte gestibili solo da smartphone. In questo modo è possibile interloquire con il singolo in presa diretta, analizzare le sue esigenze e accendere o spegnere funzionalità.
Una strategia complessa
Detta così, si tratta ‘solo’ di raccogliere dati e utilizzarli come guida per mirare l’offerta. Ma l’adozione di una vera strategia basata sulla customer experience non è un progetto banale e richiede una profonda trasformazione nel modo di fare business, nell’organizzazione e nella cultura di un’azienda. Nel caso di UniCredit significa non solo investimenti, ma anche chiudere 500 filiali. La trasformazione verso l’omnichannel, come sottolinea Marta Valsecchi, Direttore Operativo Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano, «deve essere pervasiva all’interno dell’organizzazione, perfettamente integrata nella strategia di business dell’azienda e pertanto condivisa non solo con le funzioni di relazione con il cliente, ma anche con i vertici aziendali». Quindi devono cambiare ruoli, processi e responsabilità. Inoltre, occorre un salto tecnologico: spesso le aziende hanno sistemi locali, slegati, sviluppati in diversi momenti con finalità proprie. L’armonizzazione è il gap più complesso e il tempo in questa trasformazione è il nemico maggiore. Non ci possono volere anni per integrare o digitalizzare. Lo vedremo più avanti quando parleremo di retail che deve fare i conti anche con magazzini e logiche distributive. Occorrono l’implementazione e l’integrazione rapida delle piattaforme necessarie per adottare una strategia unica di marketing e comunicazione, vendita e customer care realmente data-driven e una gestione coerente dei contenuti e delle informazioni sui diversi punti di contatto. Perché al centro di tutto, in realtà, più che il cliente ci sono i suoi dati. Milioni di informazioni che devono essere raccolte, integrate e analizzate per avere una vista unica sul cliente. Operazione non banale, se pensiamo che un gigante come Amazon fatica a integrare i dati di venduto con i dati sui quali si basano i suggerimenti all’acquisto, e così compriamo un libro, ci arriva a casa e il giorno dopo puntuale ci arriva una mail che ci suggerisce… lo stesso libro.
I dati, questi sconosciuti
Spesso si pensa che basti dotarsi di una piattaforma per risolvere il problema. Detto che un CRM è solo uno strumento e non la soluzione, non basta acquisire il dato: occorre business intelligence e soprattutto del data mining per selezionare, esplorare e modellizzare grandi masse di dati, al fine di scoprire regolarità o relazioni non note per essere competitivi e arrivare prima di altri. Così ha fatto Toyota. In Italia il 99% degli acquisti di automobili avviene offline, così nel 2019 ha voluto incentivare le visite presso i concessionari con una strategia omnichannel che sfruttasse campagne locali usando la geolocalizzazione, la ricerca, Maps, YouTube e la rete display di Google, che monitora tutta l’attività legata a un account gmail. «In un mese siamo riusciti a incrementare le visite in negozio del 52% rispetto all’anno precedente, con un +14.000 visite in 30 giorni», ha spiegato Davide Fraccalvieri, Marketing Communication Manager della casa automobilistica giapponese. «Le visite presso i concessionari sono state misurate utilizzando i dati anonimi e aggregati degli utenti autenticati Google che avevano attivato la Cronologia delle posizioni». In questo modo Toyota è riuscita a misurare le conversioni ogni volta che gli utenti, dopo aver interagito con un annuncio, completavano un’azione specifica, come telefonare per un appuntamento, accedere al sito web, visualizzare indicazioni stradali, e avere una visione più completa del rendimento online e offline della campagna.
Ma come devono essere questi dati e come devono essere organizzati? Possono essere in forma strutturata o destrutturata a seconda che siano memorizzati o meno su database; individuali, riconducibili cioè a un singolo utente, o aggregati in gruppi di consumatori; dichiarati direttamente dall’utente stesso (per esempio registrazione o navigazione in chiaro) oppure ottenuti tramite monitoraggio passivo; storici o raccolti in tempo reale. Tutto questo è finalizzato alla segmentazione del mercato per individuare comportamenti, caratteristiche o bisogni comuni, e alla creazione di profili o modelli ricorrenti. «Capito il cliente – prosegue Valsecchi – lo si deve incontrare in ogni touch point disponibile, innescando tutti i meccanismi utili per proporgli un prodotto che sia più aderente possibile alle sue esigenze, anche non espresse, fidelizzandolo, attivando promozioni e cercando di scongiurare il più possibile il cosiddetto churn», ovvero la sindrome da ‘carrello abbandonato’ che affligge l’e-commerce con percentuali impressionanti. La società inglese di marketing comportamentale SaleCycle ha stimato una media del 74% di tasso globale di abbandono del carrello sui siti e-commerce. I dati per settore evidenziano che il travel è l’ambito con la percentuale maggiore con l’81,8%, seguito dai servizi finanziari (77,8%), mentre il comparto che registra il valore più basso è il fashion (71,5%).
Il mio nome è nessuno
Incontrare il cliente significa non abbandonarlo, coccolarlo e guidarlo, ma soprattutto mai assillarlo. Perché se è vero che per suggerire un prodotto e ricordare un carrello abbandonato è necessario rivolgersi a lui direttamente, è altrettanto vero che ormai la sensazione di essere perennemente spiati sta generando una reazione negativa che spinge all’anonimato. Quanti di noi non hanno fatto acquisti su un sito, non hanno scaricato un’app o hanno rifiutato l’ennesima fidelity card perché occorreva registrarsi e non volevano essere assillati da ulteriori notifiche, newsletter, mail, messaggi...?
E qui arriva la vera sfida che va oltre il rispetto della privacy o del GDPR: come profilare e fare omnicanalità con clienti anonimi? In altre parole: so come ti chiami, so cosa hai comprato e cosa ti piace, ma se non so chi sei? È la domanda che si sono fatti in RCS MediaGroup quando hanno avviato la loro trasformazione omnicanale. Se prima il focus erano abbonati e registrati identificabili per nome e cognome, l’attenzione è stata spostata verso quella che rappresenta l’audience maggiore di RCS: gli utenti anonimi. Per poter analizzare il comportamento dei contatti è stata realizzata una piattaforma di Data Management che permette, attraverso i cookies (piccoli file di testo che salvano i dati di navigazione su un sito), di raccogliere le modalità di interazione dei lettori e avere la possibilità di attuare azioni di marketing push. In questo modo è possibile individuare, per esempio, un utente che durante il processo di acquisto non ha portato a termine la conversione, e gli si può riproporre un prodotto di interesse (o articoli correlati) o mostrargli banner promozionali quando torna sul sito. Inoltre, attraverso la sincronizzazione dei dati off e online, è possibile una conoscenza approfondita dell’utente. Ecco perché è così indispensabile, alla luce anche del GDPR, l’ok che viene chiesto ogni volta che si accede per la prima volta a un sito. Senza cookies, si rende cieca un’azienda. E non è un caso che i maggiori sviluppatori di piattaforme di Data Management siano big del calibro di Oracle o Adobe.
Omnicanalità nel retail
Se è vero che nel 2018 il numero degli italiani che usa il web per tutte le fasi del customer journey, dalla ricerca delle informazioni alla fase di acquisto, è cresciuta di 2,5 milioni, è altrettanto vero che i negozi fisici restano al centro delle strategie marketing di tutti i retailer, da Amazon Go ai maggiori big del fashion. Se nel digitale l’omnicanalità è più o meno alla portata di tutti, nel retail deve affrontare le vere sfide. Basterà un esempio. Sono a Parigi e sto navigando sull’e-commerce dei miei jeans preferiti. In che lingua deve essere il sito? In francese perché rileva il mio IP o in italiano in base ai cookies? E se sono arrivato da un social? Trovo un modello che mi piace, lo vorrei ordinare e farmelo consegnare a casa: sono a Parigi solo per il week-end. Si può fare? La disponibilità che vedo è quella del magazzino francese, ammesso che ce l’abbia, o di quello italiano? E come cambia la disponibilità se sono loggato, quindi riconoscibile, o anonimo? E cosa succede se il paio che ho scelto è disponibile nel magazzino francese, ma non in quello italiano dal quale partirebbe se scelgo la consegna a casa? E perché non offrirmi il ritiro in negozio? Se invece ho il tempo di farlo consegnare a Parigi ma, arrivato a casa, devo fare un reso, come mi comporto: lo rimando in Francia, lo rendo al negozio a me più vicino o lo rendo all’e-commerce locale? Sono tutte questioni che vanno affrontate se si fa della vera omnicanalità e che nascondono difficoltà organizzative che vanno ben oltre l’armonizzare i dati del cliente. La differenza tra negozi di proprietà e franchisee, con magazzini e contabilità proprie, rende impossibile un semplice cambio di taglia tra punti vendita.
Oggi il più delle volte non si va oltre alla possibilità di vedere la disponibilità in negozio di un articolo e prenotarlo mentre si naviga nell’e-commerce, come fa Decathlon. Ma non mancano esempi più virtuosi come Yamamay che ha stretto ad aprile 2019 una collaborazione con Accenture per unire le opportunità del digitale con quelle del negozio fisico e creare così una customer experience omnicanale. Per l’utente è possibile iniziare un’attività su un canale e proseguirla su un altro, senza dover ricominciare da capo. All’interno del punto vendita di Milano, i personal shopper possiedono tecnologie di mobile payment per garantire un’assistenza dall’ingresso del cliente fino al momento del pagamento, senza che questo debba passare dalla cassa. Altre novità tecnologiche in chiave omnicanale sviluppate sono i monitor touch screen interattivi e un ologramma in 3D che permette la visione di immagini tridimensionali in movimento, con l’effetto di una sfilata virtuale. Un altro elemento fortemente omnicanale è Anna, un mobile chatbot creato da Accenture per offrire ai clienti una consulente di moda personalizzata. Accessibile tramite Google Assistant e attivata grazie all’Intelligenza Artificiale, fornisce suggerimenti su capi e accessori solo dopo aver eseguito un’analisi dello stile di ogni persona. L’accesso alla fashion stylist può avvenire tramite il proprio account Google, senza dover installare applicazioni sullo smartphone: seguendo i consigli di Anna, l’utente ha la possibilità di collegarsi al sito di Yamamay per procedere direttamente all’acquisto, beneficiando anche del servizio click&collect.
Insomma, come emerge dalla ricerca del Politecnico di Milano “I pilastri dell’omnichannel customer experience management”, «le aziende italiane sono ancora lontane dall’attuare una vera omnicanalità nei confronti dei propri consumatori, prediligendo un approccio quick-win su singoli canali piuttosto che una gestione integrata dei diversi canali di marketing e comunicazione». La trasformazione è certamente in atto, ma resta ancora tanto, tanto da fare.