Di Michela Pibiri | su PRINT 70
Ci sono universi interi dentro questo mondo fluttuante dell’Ukiyo-e, tanti quanti le individualità artistiche che l’hanno interpretato al di là degli stilemi di un genere nato per soddisfare la voracità edonista della città di Edo, l’attuale Tokyo.
Dopo i più conosciuti Hokusai, Hiroshige e Utamaro, l’Italia incontra per la prima volta Utagawa Kuniyoshi (1798 – 1861) al Museo della Permanente di Milano fino al 4 febbraio 2018, scoprendo un immaginario surreale, ironico e sorprendentemente vicino alla sensibilità occidentale. Una familiarità che deriva, certo, dalla permeabilità dell’artista alle iconografie e alle tecniche provenienti dall’Europa negli anni in cui il Giappone si apre, dopo secoli di isolamento, agli scambi commerciali: vediamo paesaggi che ricercano profondità e spessore atmosferico come fossero dipinti a olio, anatomie che denunciano familiarità con i trattati scientifici dell’epoca, una ricerca del vero nelle fisionomie femminili che trascende un immobile ideale di bellezza, un horror vacui di stampo barocco e persino, non è da escludersi, l’influenza di Arcimboldo sulla creazione di ritratti-puzzle e di giochi calligrafici composti da figure animali incastrate tra loro.
Ma non solo: se Kuniyoshi parla un linguaggio che mescola Oriente e Occidente, anche noi, dal Japonisme in poi, abbiamo costruito la nostra cultura visiva tenendo conto degli stimoli provenienti da quella porzione di mondo.
Non è difficile, dunque, sorprendersi di quanto indietro nel tempo si trovino espedienti tipici della grafica contemporanea e dei manga, di quanto moderni appaiano i guerrieri tatuati a colori, di quanto i pattern geometrici e floreali dei kimono siano parte del nostro design quotidiano. Ma quello che colpisce più di tutto è ciò che avviene oltre i confini del razionale, in una soglia di sonno-veglia quasi ipnotica: spettri che fluttuano nel vuoto, scheletri e teschi, creature folkloristiche e bizzarre come il tanuki, cane-procione mutaforma.
E poi, ovunque, animali mostruosi, fuori scala e feroci, la maggior parte provenienti dall’acqua: balene, certo, ma anche carpe giganti, piovre, rospi e persino un pesce-alligatore-squalo con cui si misurano eroi letterari e guerrieri del passato in un dinamico intrico di corpi. È la rappresentazione di un inconscio collettivo legato al mare dal conflitto tipico di chi nasce su un’isola: fonte di sussistenza e dunque sacro, ma anche limite fisico e psicologico, brulicante di ignote minacce e quindi maledetto. La rappresentazione
vivida di capricci, bizzarrie, sogni e incubi finora inedita nell’Ukiyo-e è valsa a Kuniyoshi l’appellativo di visionario, e a noi che lo vediamo per la prima volta rende ciò che già conosciamo un po’ più chiaro: dall’agghiacciante Sadako che esce dal pozzo di Ring alla meravigliosa Città incantata di Miyazaki.
La xilografia giapponese del periodo Edo
Da antica arte dei monaci buddisti, importata dalla Cina, a prodotto di largo consumo: la stampa xilografica giapponese ha conosciuto il suo momento d’oro con l’Ukiyo-e (immagini del mondo fluttuante), fiorito tra il XVII e il XX secolo grazie alla nascita di una nuova classe media che richiedeva immagini a basso costo. Inizialmente monocroma (Sumizuri-e) - si serviva di china e di una sola matrice, e talvolta il colore veniva aggiunto manualmente sulla stampa finita - è diventata progressivamente policroma con l’utilizzo di tre o quattro matrici e infine con lo sviluppo del Nishiki-e (1765), che prevedeva fino a quindici colori e altrettante matrici. La tecnica prevedeva che le matrici di legno di ciliegio o pero venissero intagliate a riserva, lasciando in rilievo le parti da imprimere, con specifiche lame da intaglio in acciaio e inchiostrate con colori a base d’acqua, amido di riso e pigmenti. Il foglio veniva trattato con la dosa, composto di colla animale e allume che ne aumentava la resistenza e la capacità assorbente; il retro del foglio veniva premuto sulle matrici inchiostrate con un tampone di bambù chiamato baren. Veniva passata prima la matrice che dava i contorni neri, poi quelle dal colore più tenue a quello più intenso. Potevano essere usati anche inchiostri rinforzati con la colla e materiali quali oro, argento, mica e gofun – una pasta bianca a base di conchiglie bruciate e carbonato di calcio - per ottenere particolari effetti nei dettagli. La tiratura poteva arrivare a duecento copie al giorno. Kuniyoshi è stato uno sperimentatore che ha attinto largamente dall’arte occidentale, non soltanto introducendo spunti iconografici inediti nell’Ukiyo-e, ma arrivando persino a imitare la resa dell’incisione da lastra di rame anziché da matrice di legno.
La carta Washi, patrimonio dell’umanità
Il Giappone ha una lunga tradizione di carta fatta a mano, chiamata Washi, cominciata nel 600 d.C ed entrata, nel 2014, nella lista UNESCO come patrimonio immateriale dell’umanità. Particolarmente corposa e resistente, esiste in più di ottanta tipologie ed è tuttora utilizzata per diverse applicazioni, le più famose delle quali sono l’Origami (la nota arte del piegare la carta), lo Shodō (l’arte calligrafica) e l’Ukiyo-e. La carta più diffusa è quella ottenuta dal gelso da carta (Kōzo), la cui consistenza finale è vicina a quella di una tela; molto diffuse anche quelle ottenute da altre due piante endemiche del Giappone: Mitsumata, più delicata e costosa, e Gampi, la più nobile e antica. Il processo di lavorazione avviene tradizionalmente d’inverno per la disponibilità di acqua fredda, che non solo inibisce la proliferazione dei batteri, ma contribuisce alla consistenza ruvida della carta contraendo le fibre. I rami vengono potati, messi in ammollo e privati della corteccia; le fibre vengono poi separate da grasso, amido e tannini, sbiancate, pestate e poi mescolate all’acqua e, nei casi in cui si voglia ottenere un tipo di carta più sottile, al neri, un materiale viscoso prodotto dalla fermentazione delle radici di Aibika (chiamata tororo). La polpa viene passata in un setaccio di bambù chiamato su per formare ogni foglio, che viene poi fatto asciugare al sole o in un ambiente riscaldato. Grazie alle fibre che non vengono sminuzzate, ma lasciate lunghe, pressate e stirate, la Washi è molto resistente anche da bagnata e flessibile al punto da poter essere cucita. È morbida, naturalmente traslucida, molto assorbente e, a parità di spessore, tendenzialmente più leggera delle carte occidentali.
Kuniyoshi, il visionario del mondo fluttuante
Una mostra MondoMostre Skira
Milano, Museo della Permanente
4 ottobre 2017 - 4 febbraio 2018