Il design come creazione di senso e valore per la società. La diversity come responsabilità e presupposto per innovare. Mauro Porcini è il primo Chief Design Officer della storia di PepsiCo, chiamato otto anni fa a infondere una nuova cultura progettuale a livello globale in tutte le espressioni della multinazionale americana presente in oltre 200 Paesi del mondo con un portafoglio di prodotti che include, oltre all’iconico soft-drink Pepsi, marche come Gatorade, Lay’s, Lipton Ice Tea, Quaker, Tropicana e Looza, solo per citare quelle presenti in Italia. Per farlo ha creato una struttura, il PepsiCo Design & Innovation Centre, che da New York si dirama in altre 12 sedi negli U.S.A. e nel mondo, e guida un team composto da 270 persone. Abbiamo chiesto a Mauro di condividere con noi la sua visione e le strategie di PepsiCo in un presente pieno di cambiamenti, sfide e, perché no, nuove opportunità.
Di Michela Pibiri | Su PRINT 83 | English version
Si dice che il lungo periodo di isolamento che ci ha coinvolti di recente abbia fatto cadere ogni barriera psicologica tra digitale e umano. È così che incontrare Mauro Porcini in una videocall impostata sul fuso orario di New York è un evento che restituisce bene il senso di comunità ibrida vissuta con una naturalezza che fino a pochi mesi fa era impensabile. L’eccezionalità sta piuttosto nell’occasione di avere uno sguardo accurato sulle strategie che PepsiCo, multinazionale leader nel settore food & beverage a livello globale, che nel 2019 ha avuto ricavi per 67,161 miliardi di dollari, sta mettendo in campo in un momento di crisi globale e grande fermento sociale come questo. Strategie in cui il design riveste un ruolo essenziale nella gestione di un portafoglio geografico e di prodotto vastissimo.
Qual è oggi il ruolo del design in un’azienda globale che si rivolge a pubblici molto diversi dal punto di vista geografico e culturale?
Il designer è per definizione un professionista che passa la sua giornata a fare l’etnografo, l’antropologo e lo psicologo, a cercare di comprendere i bisogni e i sogni delle persone per creare delle soluzioni che abbiano un valore per loro. Possono essere prodotti, per chi fa design di prodotto, oppure brand, forme di comunicazione, packaging o esperienze. C’è chi disegna i prodotti e brand di oggi e c’è chi invece cerca di immaginarsi quelli del futuro, ed è questo che facciamo nel nostro Design & Innovation Centre. Nel nostro lavoro dobbiamo sempre tenere in considerazione tre pilastri: il primo è quello delle scienze umane, la cosiddetta desirability: i designer arrivano all’essere umano da una prospettiva bilanciata tra emozioni e razionalità per creare qualcosa che le persone amino, che venga definito “cool”, come si dice nel linguaggio di strada americano o che, in linguaggio più forbito, definiamo “meaningful”, significativo.
Il secondo pilastro è la viability: creare valore economico l’azienda. È un aspetto imprescindibile anche per il designer purista, che vuole creare valore per la società a prescindere dal valore economico: un approccio, se vogliamo, un po’ idealista comune a molti giovani designer. A loro rispondo che creare prodotti finanziariamente rilevanti è necessario per creare valore per la società. Dobbiamo appoggiarci a una rete di business e distribuzione tale da poter raggiungere più persone possibile con le nostre idee.
Il terzo pilastro è la feasability. È il momento in cui l’idea, ricca di senso e commercializzabile, deve essere realizzata con i giusti processi di manifacturing secondo le capacità dell’azienda. Anche le idee più strepitose devono fare i conti con i vincoli tecnici e su cosa si può realizzare con la giusta redditività. Tutto, per noi, deve stare in equilibrio tra queste tre dimensioni.
Quali sono i principali cambiamenti, in termini di approcci e innovazioni, che si stanno verificando nel campo della progettazione su larga scala?
Viviamo in un mondo in cui oggi più che mai è necessario concentrarsi sulle persone. Nella storia del business mondiale, l’essere umano non è mai stato realmente al centro, se non nelle fasi iniziali di invenzione e immissione sul mercato di brand e prodotti; ma nel momento in cui si è cominciato a ragionare in scala, all’interno di quelle stesse aziende di successo e iper-efficienti si è spesso perso quel valore umano iniziale. L’innovazione, un tempo appannaggio di grandi aziende che avevano il monopolio, era tutta incentrata sul business, ma le cose stanno cambiando radicalmente perché chiunque, oggi, può avere accesso a finanziamenti grazie al crowdfunding o enti di varia natura che supportano le idee delle startup. Inoltre il costo delle tecnologie si sta abbassando, si pensi solo al digital printing e alla stampa 3D che permettono di creare prodotti in basse tirature a costi ragionevoli; l’e-commerce permette di arrivare direttamente al consumatore, i social media permettono di comunicare. Tecnologia, comunicazione, distribuzione: sono tutte aree che un tempo rappresentavano barriere insormontabili in entrata, e impedivano di competere con le grandi multinazionali e i loro budget miliardari. Di fronte a questo nuovo panorama di startup, se una multinazionale non crea qualcosa di valore, di rilevante ed eccezionale per l’essere umano, deve essere consapevole che qualcun altro lo farà al suo posto, dal prodotto alla comunicazione, dal packaging alla distribuzione fino all’esperienza d’acquisto: basta essere deboli anche solo su una di queste dimensioni perché le nuove realtà attacchino il loro business partendo da bisogni che non sono stati risolti. Le grandi aziende non hanno più la possibilità di proteggere la mediocrità attraverso le barriere all’entrata: sarà l’eccellenza a vincere.
PepsiCo ha messo la diversity al centro della sua filosofia aziendale. Come si è arrivati a questa vera e propria rivoluzione di valori e cosa fate concretamente per superare le iniquità sociali?
Negli Stati Uniti c’è una spinta egualitaria fortissima da parte della società. Lo vediamo in questi giorni, ma è un’esigenza che va molto indietro nel tempo e i temi della diversity nelle grandi multinazionali sono all’ordine del giorno. Noi abbiamo un Chief Diversity Office, ma un po’ tutte le grandi aziende stanno facendo questo stesso sforzo consapevole. Indra Nooyi, la nostra ex CEO (dal 2006 al 2018, ndr), è stata indubbiamente un’icona di questa evoluzione. Il suo profilo professionale è cresciuto all’interno dell’azienda, e la sua posizione è stata scelta nel board dei top manager per manifestare un approccio che l’azienda ha voluto fortemente e che lei ha portato avanti in modo ancora più amplificato e sempre con grande equilibrio. Personalmente spingo in direzione della diversità per due motivi fondamentali. Da una parte perché aziende come PepsiCo, con risorse enormi, visibilità e accesso a miliardi di persone, hanno la responsabilità sociale di aiutare le comunità che per genere, colore della pelle, orientamento sessuale sono state discriminate, emarginate o sfruttate nell’arco della storia dell’umanità e lo sono tuttora. Per dare alcuni dati, in PepsiCo abbiamo il 43% di donne e il 57% di uomini, ma è necessario fare ancora uno sforzo per bilanciare equamente il team. Abbiamo i più grandi recruiter al mondo, ma soprattutto nel design è ancora oggi difficile trovare donne e persone di colore che ricoprano ruoli di alto livello, e i motivi sono sociali: tipologie di studi intrapresi, costrizioni socioeconomiche che determinano interruzioni delle carriere. Dobbiamo forzare la ricerca di questi talenti, anche se sono statisticamente meno, per avere la giusta rappresentanza nel nostro mix e lanciare un chiaro messaggio alla società affinché cambino anche le condizioni che creano disparità in partenza. Il secondo motivo è che per fare innovazione occorre osservare la realtà che ci circonda con occhi sempre nuovi, quelli del “fanciullino” di Pascoli che conserva la capacità di meravigliarsi di ogni dettaglio. Io applico il mio punto di vista, ma se accanto a me c’è una persona con un background culturale diverso perché arriva da un altro Paese, è di un altro sesso, ha altre preferenze politiche, religiose e sessuali – ovviamente stiamo ragionando per macrocategorie che non esauriscono la complessità – ecco che la diversity non è più solo un impegno sociale. Quei singoli punti di vista diversi dal mio rappresentano milioni di persone. Tutti insieme rappresentano potenzialmente l’umanità intera. La diversity è la possibilità di creare innovazione laddove nessuno aveva mai visto un’opportunità.
In che modo è possibile trasmettere valori di inclusione ed emancipazione attraverso il packaging? Mi riferisco a un brand come Life WTR, che sostiene le comunità di artisti sottorappresentati e si è inserito nel dibattito sull’assenza di artiste nei musei americani, o a Stacy’s, che sostiene le idee delle imprenditrici.
Ci sono tre livelli di interazione tra le persone e i prodotti. Quando sono davanti allo scaffale, o davanti a un monitor, le persone sono attratte prima di tutto da ciò che vedono, in un’interazione viscerale in cui l’estetica del prodotto è fondamentale. Poi arriva il momento in cui si interagisce col prodotto sia dal punto di vista razionale che emotivo: lo si prende in mano per capire di cosa si tratta e se lo si vuole davvero. ll terzo momento implica una relazione riflessiva, e si innesca quando quel prodotto ha effettivamente un senso per il consumatore, che ne vuole parlare al mondo perché lo stimola e lo ispira: noi lo chiamiamo beneficio semiotico. Come designer, se vogliamo portare avanti l’inclusione dobbiamo prima di tutto creare un prodotto che inneschi la reazione viscerale, che abbia un impatto forte e che crei emozioni: tutti i discorsi sulla diversity avvengono dopo, come nel caso di Life WTR, gli investimenti che facciamo per sostenere le comunità creative emergono quando si approfondisce la conoscenza del brand. La parte estetica del design, che blocca le persone davanti allo scaffale, è il veicolo per innescare questo dialogo.
Torniamo alla feasability, ossia la fattibilità. Qual è il ruolo delle tecnologie di stampa nel vostro processo creativo?
Le tecnologie sono importantissime per cercare di creare l’impatto di cui parlo. Sull’etichetta di Life WTR abbiamo utilizzato tecnologie di stampa che intervengono su diversi layer per dare più profondità alla grafica e più impatto ai colori, che risultano estremamente brillanti. Una grafica così sofisticata ci aiuta a posizionare quella bottiglia su un livello premium: stiamo parlando di arte, e quindi avere un’estrema cura nei dettagli di stampa è fondamentale. Di contro ci sono limiti tecnologici che ci impediscono di fare in scala tutto quello che immaginiamo per i nostri brand. Il mio sogno sarebbe riuscire a stampare in modo flessibile grafiche diverse per brand diversi molto rapidamente: in questo modo potremmo reagire istantaneamente ai trend e a quello che accade con una flessibilità totale del packaging. Sono possibilità che la stampa digitale dà, ma che non sono applicabili agli immensi volumi di produzione – si parla di miliardi di pezzi al giorno – che dobbiamo sostenere, sia per una questione di costi sia per la velocità di produzione. Usiamo la stampa digitale – anche quella diretta su bottiglia – nei nostri laboratori, ma limitatamente alle micro-edition. Sogno un’integrazione totale tra la struttura del packaging e le etichette, la possibilità di lavorare sulle trasparenze estreme senza difetti – bolle, distacchi, graffi – così che il brand e il messaggio siano totalmente fusi con la forma della bottiglia e della lattina, il tutto a costi accessibili per il consumatore. PepsiCo investe miliardi di dollari in ricerca e sviluppo tecnologico: quello della stampa è un tema che stiamo sviscerando sotto ogni possibile punto di vista perché, al di là delle esigenze creative e di innovazione, per noi la modifica minimale di un inchiostro o di una grammatura, coi volumi che produciamo, ha un impatto economico enorme. Ma io, da grande ottimista, vedo sempre i limiti come un’opportunità: non vedo l’ora che qualcuno nel mondo tecnico-scientifico risolva un problema per dare l’opportunità ai designer e alle aziende di innovare. D’altra parte ancora oggi, nel design italiano viene celebrato sempre l’imprenditore illuminato o il creativo ma tutti si dimenticano sempre della terza figura fondamentale, che è il tecnologo, lo scienziato, colui che prende i sogni di due pazzi visionari e li trasforma in realtà. Senza di lui nulla accadrebbe: i visionari passano ore e ore in fabbrica con l’artigiano, lo scienziato, l’ingegnere per risolvere i problemi della manifacturability.
A che punto siamo con la sostenibilità della filiera produttiva agli occhi dei consumatori, e qual è l’approccio di PepsiCo in merito alla necessità di una transizione ecologica su scala globale?
È necessario educare in modo serio alla sostenibilità, a partire dalla scuola e dai media, per evitare visioni superficiali. Prendiamo la plastica: in una prospettiva riduttiva rappresenta un problema evidente, perché la troviamo dispersa nell’ambiente e uccide forme di vita. Ma se si guarda l’intero ciclo di produzione si scopre che l’alluminio e il vetro spesso hanno un impatto molto più alto della categoria molto ampia delle plastiche. Il primo concetto chiave è dunque osservare l’intero ciclo di vita del prodotto, dalla produzione al trasporto alla distribuzione fino all’utilizzo e il disuso. Dobbiamo ricordare che l’unico prodotto a impatto zero è il non-prodotto, ma visto che dei prodotti abbiamo bisogno e non possiamo essere idealisti all’estremo, il secondo concetto è il riutilizzo, il terzo è il riciclaggio, ma questi due step hanno implicazioni al di fuori dell’azienda, dal consumatore ai governi che devono mettere a disposizione le infrastrutture necessarie. La nostra strategia implica lavorare su tutte queste tre dimensioni, ed è per questo che facciamo parte di diversi consorzi insieme ad altre multinazionali, anche competitor. Fatta la nostra parte, il tassello fondamentale è la collaborazione del consumatore che può cambiare le sue abitudini partendo da ecosistemi chiusi, come gli ambienti lavorativi. Nel nostro Design Centre, per esempio, eccetto Life WTR che ha la bottiglia di rPET, non si trovano bottiglie di plastica; abbiamo acquisito SodaStream un anno e mezzo fa perché per noi il futuro è nel contenitore riutilizzabile, eppure tra i consumatori fa ancora fatica ad affermarsi.
Crisi e opportunità legati al Covid-19. Credi che qualcosa sia cambiato in maniera irreversibile? Qual è la tua visione in merito agli approcci e innovazioni che si renderanno necessari nel prossimo futuro?
La crisi legata al Covid-19 sta accelerando un processo che già era in atto: questo senso di empatia generale, di ridiscussione delle priorità, la consapevolezza che siamo ospiti su questo pianeta e che la natura può sbarazzarsi di tutti noi in un attimo stanno facendo emergere ciò che è veramente importante. Personalmente sono convinto che torneremo a breve alla normalità, e per me è importante capire cosa questa crisi possa generare che abbia valore nel lungo termine. Prima fra tutti la digitalizzazione. Noi stavamo già studiando l’interazione con vending machine senza tocco fisico, connesse al telefono per dare i comandi e autorizzare i pagamenti digitali, ma sono molte le aree di innovazione progettuale che questo virus può accelerare, anche in una prospettiva di vita ibrida. Bisogna invece avere cautela con i tipi di progettazione che non avranno alcun senso tra un anno o due, come ridisegnare i ristoranti e i negozi per permettere il social distancing: pannelli divisori, mascherine, mancanza di interazione non sono il “new normal”, sono il “temporary normal”. Le innovazioni vere su cui dobbiamo puntare sono quelle sostenibili nel tempo. L’aspetto più preoccupante invece, è che a fronte di una nuova sensibilità, appena fuori dalla crisi torneremo di default ad alcune abitudini del “prima”. Mi riferisco ai ritmi di vita estremi, al fatto che anteponiamo il lavoro alla nostra felicità. A meno che dei leader – parlo del mondo del business, della politica, dell’intrattenimento – prendano posizioni forti, come ha fatto Giorgio Armani in merito alla fashion industry, e traccino una direzione diversa, mostrando anche i benefici economici e produttivi di nuovi modelli di lavoro che mettano la felicità dell’essere umano al centro di tutto.
Mauro Porcini
Nato a Varese nel 1975, studi al Politecnico di Milano, Mauro Porcini entra in PepsiCo nel 2012 come primo Chief Design Officer nella storia della multinazionale americana. La sua missione è infondere nuova cultura progettuale all’interno dell’azienda a livello globale, disegnando le strategie di innovazione e design delle piattaforme di prodotto attuali e future e del vasto portfolio di brand della corporation, che include tra gli altri Pepsi, Lay’s, Mountain Dew, Gatorade, Tropicana, Doritos, Lifewtr, bubly, Aquafina, Cheetos, Quaker, Mirinda, SunChips. La sua responsabilità si estende a tutta le espressioni fisiche e virtuali dei brand, includendo prodotto, packaging, pubblicità, eventi, collaborazioni nel mondo della moda e dell’arte, attivazione nel retail, architettura e digital. L’organizzazione creata da Mauro per PepsiCo ha sedi in ogni regione del mondo: New York City, Purchase, Dallas, Chicago, Miami, Londra, Dublino, Mosca, Il Cairo, New Delhi, Shanghai, Città del Messico, San Paolo.
Prima di entrare in PepsiCo Mauro ricopriva la carica di Chief Design Officer nella multinazionale 3M, in Minnesota, in una posizione creata ad hoc per lui, dove la sua missione era quella di costruire e facilitare una cultura d’innovazione design driven in un’azienda storicamente fondata sulla pura innovazione tecnologica. Ha cominciato la sua carriera professionale in Philips Design e ha poi creato insieme al produttore musicale Claudio Cecchetto la propria agenzia di design, Wisemad SrL. Nell’arco di questi anni Mauro ha depositato 46 brevetti a suo nome ed è stato insignito di numerosi premi nell’ambito del design e dell’innovazione. Nel 2019 il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella gli ha conferito la carica di Cavaliere dell’Ordine della Stella d’Italia. Mauro siede nel Board of Directors del Design Management Institute di Boston, nel Board of Directors dell’Italy-America Chamber of Commerce, nel Board of Directors della Scuola d’Italia a New York e in vari altri Advisory Council di istituzioni di design e arte. Al momento vive a New York City.