C’è un gran fermento attorno ai formati, che crea non poche ricadute sulla stampa e sulla qualità delle immagini. In questo articolo facciamo il punto sull’argomento: sulle caratteristiche d’uso dei diversi formati e sui criteri di scelta.
Di Lorenzo Capitani | Su PRINT 77
Al NAB Show di Las Vegas, evento internazionale dedicato al media entertainment professionale, l’anno scorso il Joint Photographic Experts Group, il consorzio che ha creato il formato Jpeg, ha presentato un nuovo formato d'immagine: si chiama Jpeg XS e ha una particolarità, quella di comprimere poco per avere qualità perfetta e bassi consumi.
Al contrario di quello che si pensa, il Jpeg non è usato solo per le immagini, ma anche per i video di realtà virtuale e in 4K. La notizia di per sé sembra la normale evoluzione di un formato ormai storico con il quale lavoriamo quotidianamente. In realtà, il nome è lo stesso ma i prodotti attuali non sono compatibili e non possono né leggere né scrivere l’attuale formato. Poco male in realtà: sarà sufficiente un aggiornamento software per macchine digitali, smartphone e computer. Si dirà, alla prima immagine che non si apre si fa l’aggiornamento e si riprende a lavorare come prima.
In realtà questa è solo l’ultima delle notizie che riguardano i formati di immagini: c’è in atto una guerra di formati che vede schierate le aziende del gruppo Alliance for Open Media tra le quali Google, Mozilla, Amazon, Netflix: Google ha lanciato il suo formato senza perdita di dati WebP che promette immagini più piccole del 30% rispetto al Jpeg e nel 2017 ha rilasciato Guetzli (cookie in tedesco), un algoritmo open source che consente di salvare immagini il 35% più piccole sempre senza perdita di dati.
Il WebP di Google è un formato aperto di compressione per le immagini creato per ottimizzare il caricamento sulle pagine web a discapito della qualità.
È supportato dai maggiori software di grafica professionali e amatoriali, come GIMP, e da tutti i sistemi operativi, mobili compresi. Anche se in modo silente, il WebP è diffusissimo: basti pensare che Facebook dal 2013 ha iniziato ad adottare questo formato per le immagini scambiate tra gli utenti e salvate nei suoi server e dal 2018, con l'introduzione degli stickers, anche WhatsApp ha adottato questo formato. Apple dal canto suo con il rilascio di MacOS High Sierra e di iOS 11 ha introdotto il formato HEIF per la gestione delle immagini.
LA GUERRA DEI FORMATI
Il motivo di tutto questo fermento attorno ai formati di immagini è legato alla distribuzione dei contenuti che deve essere di qualità massima in tutte le condizioni di connettività. Già esiste la possibilità di distribuire i contenuti nella dimensione e risoluzione più adatta al device con il quale si fruiscono con logiche di ridimensionamento e adattamento on-the-fly, ma con il 5K alle porte, che nel suo formato più comune vuol dire 5120 × 2880 pixel, l’ottimizzazione è la priorità. Certo le reti 5G e la diffusione della banda larga mitigheranno il problema, ma di fatto siamo esattamente di fronte alla stessa questione che gli esperti del gruppo Joint Photographic Experts Group dovettero affrontare più di 30 anni fa. Come spiega il prof. Touradj Ebrahimi, attualmente a capo del gruppo, in una recente intervista “nei primi anni ’80 non esisteva alcuna tecnologia per copiare o trasmettere immagini elettroniche; il Minitel, inventato dalla Francia, consentiva solo di inviare testo o grafica semplicissima. Dovevamo trovare un modo per ridurre il peso delle immagini, l’industria delle telecomunicazioni ci diede lo stimolo a creare il Jpeg: era il 1992”.
Paradossalmente il Joint Photographic Experts Group ha scelto di comprimere meno per mantenere una qualità perfetta e soprattutto consumare meno energia. Se oggi i file Jpeg sono compressi 10 volte rispetto a una foto bitmap non compressa, nel caso del Jpeg XS la riduzione è di sole 6 volte ma il risultato è identico a livello qualitativo. Questo vuol dire che Jpeg XS può essere usato ogni qual volta occorrano rapidità e bassi consumi. Oggi comprimere una foto in formato Jpeg richiede un certo consumo di corrente: poca cosa, ma in certi ambiti impatta e si fa sentire sulla durata della batteria per esempio del nostro smartphone. Non solo, la compressione porta via preziosi millisecondi il che, nel caso di trasmissioni in tempo reale, per esempio da droni o verso visori di realtà virtuale, introduce una latenza indesiderata. Il Jpeg XS a compressione minore potrebbe decollare con il 5G che promette 20 Gbps in download mentre con il 4G siamo a 4000 Mbps: inutile pensare di ridurre le dimensioni delle foto se queste non devono più stare sul dispositivo ma possono essere salvate in cloud e riprodotte velocissimamente in streaming: e qui si ritorna al problema della connettività. Ecco allora che, al di là delle promesse di velocità mai realizzate, forse la via di Google e Apple potrebbe essere più cautelativa.
I SEGRETI DEL JPEG
Ma come impatta tutto questo sulla stampa? Al di là dei formati che cambiano e della compatibilità in sé per i quali basteranno degli aggiornamenti, il problema vero è costituito dalla qualità e dalla consapevolezza con le quali si usa un formato piuttosto che un altro. Già ora si dibatte se sia meglio usare il Tif o l’Eps (con il Jpeg che, tra due litiganti, imperversa), se scattare in Raw o direttamente in Jpeg e quando sviluppare il Raw. Proviamo a fare un po’ di chiarezza. Tanto per cominciare si dice jpg o Jpeg? In realtà questo è un falso problema: la differente grafia nasce dalla necessità di garantire piena compatibilità tra sistemi operativi. Infatti, Jpeg si usa per il Mac, mentre Jpg è per i pc in generale e Windows, i quali richiedono obbligatoriamente estensioni a tre lettere. Di fatto sono esattamente la stessa identica cosa ed entrambi vengono utilizzati per le immagini, ma sono stati prodotti da due sistemi operativi differenti. Essendo intercambiabili, le foto possono essere scambiate e lette sia da un Windows che da un Mac, senza che si presenti alcun problema. Ma al di là dell’estensione, la verità è che sarebbe bene cercare di non usare mai i Jpeg a meno che non se ne possa fare a meno. Tradotto: se l’unica foto che ho disponibile è scattata con un iPhone, non ho alternative e dovrò accontentarmi del Jpeg per quanto – ma lo vedremo dopo – già l’iPhone non scatta in Jpeg e le foto da device di questo genere ormai non hanno più nulla da invidiare a quelle scattate con le fotocamere più blasonate. Immaginando di fotografare con hardware professionale, scattare direttamente in Jpeg significa già in partenza rinunciare alla qualità massima possibile. Questo perché si tratta di un formato che implica sempre perdita del dato. La fotocamera di fatto, anche se settata per scattare direttamente in Jpeg, scatta in Raw e converte in Jpeg senza possibilità di intervento o di regolazione. Quindi opera una trasformazione assoluta, corretta magari da un punto di vista matematico, ma arbitraria. Il Jpeg ha vinto rispetto ad altri formati perché ha un livello di compressione molto elevato e riesce a trasformare immagini parecchio grandi in file molti più piccoli con un basso consumo di spazio e memoria. Inoltre, continua, Ebrahimi, “è un formato aperto, adattabile a tutti i device e totalmente senza royalties”. E questo al mondo web piace molto. È adattissimo per le foto, su cui bisogna però applicare compressioni adeguate, affinché la qualità non ne risenta. Infatti più alta sarà la compressione più piccole saranno le dimensioni, ma più bassa sarà anche la qualità dell’immagine. Non è un caso che non sia adatto per le immagini con del testo, disegni, schemi, grafici ed immagini mediche come radiografie. Inoltre non supporta tracciati e trasparenze. È un buon compromesso, ma pur sempre un compromesso.
COME FUNZIONA LA COMPRESSIONE JPEG
Senza disturbare la trasformata discreta del coseno (o DCT), l’assunto iniziale è eliminare tutte le gamme cromatiche teoricamente non visibili dall’occhio umano: un po’ come l’mp3 (suo cugino stretto) che elimina tutte le frequenze non udibili o l’mp4 per i video. È un assunto che si basa su una funzione matematica detta dei predittori che tenta di stimare il valore di un campione a partire da quelli adiacenti o già elaborati. Se prendiamo un’immagine con un fondo continuo, questa potrà essere compressa moltissimo perché, tra un campione di colore e un altro adiacente, il campione intermedio sarà molto simile e come tale eliminabile; viceversa se l’immagine ha continui passaggi di colori come una sfumatura, la compressione eliminerà i colori intermedi ritenuti invisibili. Se deriviamo il fenomeno al massimo, tra un gradiente e l’altro si vedranno gradini, artefatti o effetti sgradevoli come il banding.
Impostando una qualità superiore, si perde una quantità minore di dati, ma ricordate che ogni volta che si salva un file in formato Jpeg si riapplica la compressione e si perde ancora in qualità: quindi salvate sempre i file partendo dall’immagine originale e non da immagini già salvate in Jpeg. Qui (https://vimeo.com/3750507) si vede molto bene cosa succede salvando un Jpeg senza nessuna modifica 600 volte! Inoltre attenzione a come si ottengono i file e a come li si trasporta. Con i device di oggi, le foto che scattiamo hanno indubbiamente risoluzioni adatte anche alla stampa, eppure una foto scattata e scaricata direttamente sul pc ha una qualità nettamente superiore a una inviata per esempio via WhatsApp: questo perché i Social dall’immagine originale ne ricavano una seconda in WebP, estremamente compressa, per facilitare la condivisione, che poi traducono ancora in Jpeg per renderla leggibile.
IL FLUSSO IDEALE
Quindi qual è la cosa migliore da fare? Scattare sempre con una macchina digitale professionale, scattare in Raw e sviluppare il Raw con tutte le regolazioni che i software specifici, come CameraRaw, consentono e, se dobbiamo stampare, salvare in Tif. Infine, post-produrre e impaginare i Tif: solo in questo modo ci garantiremo di lavorare senza perdita di dati significativa. Attenzione: Tif e non Eps, come si faceva fino a qualche tempo fa, e si fa ancora per abitudini dure a morire. Già nel numero 9 del 2007 (!) di Print Buyer Mauro Boscarol intitolava “EPS: se lo conosci lo eviti”: l’EPS è nato con il PostScript negli anni ’80, non è un formato in senso stretto, ma un programma PostScript più un’anteprima (quello che si vede a video), il Tif invece è esattamente l’elenco dei pixel dell’immagine, cioè dati. L’Eps, nato per le immagini vettoriali, si usava anche per i raster quando si voleva “scontorrisenta nare” l’immagine perché consentiva i tracciati vettoriali. Oggi il Tif li supporta e InDesign (o Xpress) supportano i tracciati di scontorno, sempre che non convenga lavorare con i livelli. Non ha senso usarlo nemmeno per i formati vettoriali, visto che è da tempo che si può usare il pdf.
RAW O JPEG
Perché sviluppare il Raw fuori dalla Macchina fotografica è ancora più evidente. Prima di tutto la qualità d’immagine è maggiore: quando si scatta in Raw, infatti, la fotocamera salva tutti i dati che arrivano dal sensore, senza alterarli. Inoltre, le immagini scattate vengono elaborate digitalmente e registrate in un file composto da un determinato numero di livelli di luminosità. I livelli di luminosità rappresentano gli step necessari per passare dal nero al bianco e sono quindi i responsabili di tutte le sfumature intermedie. Ora il file Jpeg è composto da 256 livelli di luminosità (8 bit), mentre il Raw può arrivare a 16.388 livelli per immagini a 16 bit. Questo è evidente sulle immagini più scure dove è necessario recuperare le zone d’ombra: avendo più livelli a disposizione, è molto più facile recuperare le zone di luce, ma anche nitidezza e dettaglio. E qui si comprende il limite dell’algoritmo di compressione: la previsione su quanto tagliare perché presumibilmente non visibile avviene sulle condizioni dell’immagine in quel momento. Ovvero se l’immagine è chiusa, quello che verrà tagliato è diverso da quello che potrebbe essere tagliato se la stessa immagine fosse aperta. Nel primo caso i tagli saranno più radicali, perché i campioni adiacenti sono più simili e quindi si elimineranno troppe frequenze che saranno del tutto irrecuperabili. A ciò si aggiunge che i Jpeg che escono dalle fotocamere o dai telefonini di fascia bassa hanno spazio colore sRGB, che riduce ulteriormente i dati dell’immagine tagliando quasi il 50% dei colori visibili. Vogliamo fare un esperimento? Scattate con la stessa Macchina e le stesse impostazioni la foto di un oggetto completamente nero in Raw e Jpeg e poi aprite i due file in Camera Raw, quindi aumentate l’esposizione di 5 stop: il Raw apparirà come un pattern uniforme, il Jpeg mostrerà zone dello stesso colore, fasce, righe, "squadrettature".
E che dire del punto di bianco? Il Raw incorpora in un’immagine i tre colori primari sui quali agire separatamente in Camera Raw per ottenere il miglior bilanciamento, mentre il Jpeg no. Infine, lavorando in Raw, si può sempre tornare all’immagine originale perché ogni cambiamento non è salvato nell’immagine, ma in un file xml che traccia le modifiche. È il formato perfetto? No, ovviamente: il Raw è un formato intermedio, ogni marca ha il suo anche se tutti i software li aprono ed è comunque gestibile sia da Win che da Mac, anche se non impaginabile direttamente. Al di là dei formati nuovi che nascono e si sviluppano, il futuro del Jpeg potrebbe non essere quello di essere soppiantato, ma di avere un algoritmo sempre più perfetto con una compressione che tagli davvero quello che non si vede. I Topaz Lab, già conosciuti per numerosi addon per Photoshop, stanno sviluppando un plug-in chiamato Topaz JPEG to RAW AI che, basandosi sull’intelligenza artificiale, in una sorta di reverse engineering, promette di recuperare i livelli mancanti e poter elaborare l’immagine esattamente come un Raw.
HEIF: IL FORMATO DEL FUTURO?
Qualcuno dice che il futuro potrebbe essere senza Jpeg e che la soluzione si chiama HEIF: High Efficiency Image Format. Ma se questo potrà essere vero per il mondo digitale certamente sarà un’invariante per chi le immagini le stampa, o meglio un’altra insidia cui prestare attenzione. La prima cosa da dire sul formato HEIF scelto da Apple è che non è un formato Apple e nemmeno una sua invenzione; Apple ha solamente deciso di adottarla nei suoi sistemi operativi iOS e MacOS per un motivo semplice: è molto più flessibile del Jpeg ed è pensato proprio per le nuove esigenze di qualità fotografica e portabilità. Tecnicamente non è nemmeno un formato, perché l’HEIF è un contenitore che risponde allo standard ISO Base Media Format, conosciuto come MP4. Si può pensare all’HEIF come a una scatola dove si può mettere dentro di tutto, anche Jpeg. L’HEIF di Apple utilizza come formato per la compressione delle immagini all’interno l’HEVC, lo stesso formato che viene usato anche per i video 4K, e proprio per questo motivo l'estensione delle foto scattate con un iPhone 8 non è "HEIF" ma "HEIC", con il cambio di estensione che identifica proprio il codec usato. In futuro, con estensione HEIF, questo contenitore per così dire magico potrebbe usare nuovi codec, mantenendo la retro compatibilità con i formati precedenti, perché al suo interno, oltre alla singola foto, può contenere anche versioni codificate in Jpeg. Cosa si può inserire all’interno di un file HEIF? Tutto: singole immagini, collezioni di immagini, intere gallery, raffiche di scatto, animazioni e fotogrammi di video, video legati a immagini, scatti multi- esposizione HDR. Se si guarda alle nuove funzioni fotografiche di iOS 11 si capisce perché Apple aveva bisogno di un formato come l’HEIF: nel caso di scatti in modalità ritratto può inserire dentro il file HEIF anche la mappa di profondità che consente di scegliere la profondità di campo che si preferisce. Inoltre un file HEIF integra anche una miniatura dell’immagine che viene caricata molto velocemente, e questo riduce i tempi di caricamento del rullino e le prestazioni del motore interno di riconoscimento dei volti. L’HEIF è infatti un formato che ben si adatta alla fotografia computazionale, ovvero a quel ramo dell’intelligenza artificiale che si occupa di riconoscere le foto e di classificarle. All’interno di un singolo container possono essere inserite intere collezioni di foto con una serie di metadati associati che, oltre a categorizzarle, stabiliscono una relazione tra le immagini. Da un punto di vista di qualità è difficile vedere le differenze con il Jpeg, anzi fa decisamente meglio: si può andare da foto molto compresse a 8 bit fino a foto con qualità professionale a 16 bit senza compressione o compresse senza perdita.
Tra i vantaggi del file HEIF c'è anche la possibilità di effettuare dei ritagli di foto senza alterare minimamente la qualità e senza ricomprimere: le immagini infatti sono salvate dentro il file non come singole foto ma come tanti file da 512 x 512 pixel. Infine, come il Raw, si può conservare tutta la storia delle modifiche fatte sulla foto consentendo un editing non distruttivo. A oggi però i prodotti compatibili con HEIF sono pochissimi: tra i browser solo Safari su MacOS High Sierra supporta questo tipo di immagini e tra i sistemi operativi solo iOS 11 e Mac OS ultima versione riescono a leggerli e gestirli. All’interno dell’universo Apple qualche sviluppatore ha iniziato a integrarlo nelle sue app, come Pixelmator, ma ancora non si può dire che sia un formato supportato, anzi. Apple, per garantire la compatibilità, ha aggiunto un’opzione che permette di convertire in automatico e in modo trasparente i video in mp4 e le foto in Jpeg, ma, come detto, questa è un’operazione che non assicura qualità perché si comprime un file già compresso. Adobe supporta l’HEIF su Photoshop dalla versione CC2018 e Lightroom e ha aggiornato Camera Raw. Forse allora soppianterà il Raw, e il Jpeg resterà come output valido. Potrà mai prendere piede un formato per il quale devono essere pagate royalties? La storia ci dice di no, ma potrebbe sempre esserci una prima volta.