Da gennaio 2023 Adobe manderà in pensione Type 1, categoria di font nata quasi 40 anni fa. Quella che sembra una cattiva notizia potrebbe essere un’occasione per fare un po’ di decluttering e ordine nella nostra collezione di font. Ma è molto saggio arrivare preparati su quello che succederà.
Di Lorenzo Capitani | Su PRINTlovers 93
“A partire da gennaio 2023 Adobe non supporterà più la creazione di contenuti con font Type 1”. Di fatto i programmi della Creative Cloud non riconosceranno più la presenza di font Type 1, anche se installati nel sistema operativo, non verranno visualizzati nei menu caratteri e quelli esistenti nei documenti saranno visualizzati come “Font mancanti”.
Con questo annuncio l’azienda americana manda definitivamente in pensione questa tipologia di font nata quasi 40 anni fa, dopo che già la versione 23 di Photoshop ha smesso di gestirli. Eppure questa scelta, che apparentemente potrebbe sembrare un limite al pari della fine del supporto delle librerie Pantone, potrebbe non essere necessariamente una cattiva notizia e rivelarsi, se non un falso problema, sicuramente l’occasione per svecchiare e mettere un po’ d’ordine nella nostra collezione di font.
Un po’ di storia
Il font Type 1 (noto anche come PostScript, PS1, T1, Adobe Type 1, Multiple Master o MM) è un formato vettoriale di font basato sulla tecnologia PostScript e sviluppato da Adobe nel lontano 1984, agli albori del desktop publishing e della composizione digitale. Fin dal marzo 1985, per prima Apple li integrò nel proprio sistema operativo quando lanciò la Apple LaserWriter, la prima stampante laser a utilizzare il linguaggio PostScript. Adobe all’epoca era l’unica detentrice di tutti i diritti su questo formato, e quindi unica produttrice di font Type1. Decisa a mantenere la sua posizione di monopolio con una politica di licenze molto stringente, Adobe di fatto isolò Apple, che decise di sviluppare una nuova tipologia di font propria, il TrueType (o TTF), poi concessa in licenza gratuita a Microsoft, dando vita così a due standard distinti durati almeno fino al 2000, quando venne sviluppato il formato OpenType.
Nel momento in cui l’impaginazione con Aldus PageMaker inaugurava l’epoca del WYSIWYG, e finalmente i layout a monitor erano grafici, il Type 1, basandosi sulle curve di Bezier cubiche, usava pochissima memoria e glifi matematicamente scalabili che garantivano l’ingrandimento del carattere preciso, senza perdita di qualità, anche a video grazie a un meccanismo detto di “hinting” (o istruzione della resa su dispositivi di bassa qualità) molto raffinato. Fisicamente i font Type 1 si compongono di un file per la visualizzazione a schermo (bitmap) e uno per la stampa (PostScript) interconnessi; non sono multipiattaforma e necessitano quindi di una versione per Mac e una per Windows. Insomma, andavano bene all’epoca, ma i successivi formati, l’OpenType soprattutto e ora i Variable Font, ne hanno decretato la definitiva obsolescenza. Questi due formati sono lo stato dell’arte della tecnologia tipografica digitale: non solo sono cross-platform in quanto adatti a qualsiasi sistema operativo, anche mobile, ma garantiscono anche compatibilità tra resa a stampa e resa in digitale per lo stesso font.
Un formato per tutti gli usi
Anche il web, e per estensione tutto quello che è digitale, merita una buona tipografia, basti pensare alla leggibilità dei testi su device mobili di tutte le dimensioni (dal tablet allo smartwatch) o sugli infotainment delle auto che devono essere letti a colpo d’occhio in tutte le condizioni di luce. Con questa idea Apple, Adobe e Microsoft, dopo anni di guerra sui formati, si sono seduti al tavolo con Google e hanno ideato gli OpenType Font Variations. A differenza della carta stampata dove un designer può affrontare un progetto scegliendo tra una miriade di famiglie di font diversi, pesi, stili, un front-end designer nel progettare la UI ha un ventaglio di scelte molto più limitato. E questo dipende da diversi fattori, innanzitutto da quello tecnologico: basti pensare che per rendere a video un font è necessario che l’utente, navigando su una pagina, ne scarichi il relativo file e questo per ogni singolo peso della stessa famiglia di font e anche per ogni stile, il che aumenta non di poco la latenza e il tempo di rendering della pagina. Un Font Variabile, invece, incorpora tutte le varianti, pesi e stili in un unico file; quindi, il browser non dovrà caricare diversi file. Per far questo, chi disegna il font fissa i valori massimo e minimo di una serie di caratteristiche base, dette assi, tra le quali ci sono peso, larghezza, dimensione ottica, regola di formazione del corsivo e regola di inclinazione. Il Roboto di Google, per esempio, ha 3 stili per l’asse del peso (Thinner, Regular e Bolder) che definiscono tutte le larghezze dello stile Regular. Sempre il Roboto, inoltre, offre un set di assi parametrici che definiscono 4 aspetti fondamentali della forma: forme nere o positive, forme bianche o negative e le dimensioni rispetto agli assi X e Y. Insomma, allo stesso modo in cui i colori primari possono essere miscelati per ottenere gli altri colori, è possibile alterare questi font come si desidera, nei limiti però del disegno base, quindi senza snaturarlo. Ovviamente la variabilità di questi font sopperisce a esigenze tecniche del digitale, ma li rende estremamente utili anche per la tipografia tradizionale perché espande nettamente le varianti del carattere e ne garantisce massima compatibilità.
E ora, che si fa?
Facendo un passo indietro, in concreto cosa succederà quando le applicazioni di Adobe non riconosceranno più i Type 1? Probabilmente poco o nulla, a patto di arrivare preparati. Sebbene siano ancora supportati da alcuni sistemi operativi, questi caratteri non lo sono dai browser e dai dispositivi mobili. Inoltre, se non avete librerie di font o impaginati più vecchi di 20 anni o i font li avete sempre presi da Internet (anche in versione free) difficilmente avrete molti Type 1 sul computer. Quello che succederà è che i font Type 1 spariranno dai menu Font dei programmi, non potranno essere quindi utilizzati anche se installati in precedenza e se presenti nei documenti risulteranno “mancanti”. Ovviamente se i Type 1 sono incorporati in file EPS e PDF non saranno interessati da questa modifica, a patto che vengano impostati in visualizzazione o stampa come elementi grafici. Tuttavia, se questi file vengono aperti per la modifica in Illustrator o Photoshop, o viene editato il PDF con il comando Modifica PDF, i font risulteranno ancora una volta “mancanti”. Anche in questi casi il problema potrebbe essere relativo: se avete EPS o PDF molto vecchi che editate, vale la pena sicuramente valutare di embeddare in questi documenti versioni di font aggiornate (il disegno e la giacitura del font restano identiche) o ricostruire l’impaginato: ci sono plugin di InDesign che convertono un PDF in un layout aperto che può essere modificato, come PDF2DTP di Markzware. Se li usate come elementi grafici, rasterizzateli una volta per tutte o convertite i font in tracciati. Se invece avete, o sospettate di avere, font Type 1 installati sul vostro computer, è arrivato il momento di scovarli e capire cosa farne.
Già ma come li troviamo? Ci sono due possibilità (li contestualizziamo in ambiente Mac, sicuramente il più usato in ambito grafico): usare il Libro Font o il Finder. Nel primo caso, dal menu File create una Nuova Cartella Smart e scegliere come tipo da filtrare PostScript. In questo modo tutti font di questo tipo installati nel Libro Font (o presenti nella cartella Font del Mac) verranno mostrati con la loro anteprima e si potrà decidere come procedere. L’alternativa un po’ più efficace perché scandaglia l’interno disco è usare il Finder e ricercare i Type 1 usando la stringa: kind: “type 1 outline font”.
Se avete un archivio consistente e un po’ di anni di lavoro alle spalle vi aspetta una lunga lista di font che giacciono inutilizzati. L’ideale sarebbe fare la stessa ricerca anche nei dischi esterni o di rete dove tenete gli archivi e i backup. Non temete, non siete soli: Extensis, il creatore di Suitecase per la gestione e l’archiviazione dei caratteri, nel suo database di 7 milioni di font ne ha trovati più di un quarto ancora in formato Type 1.
È il momento di fare pulizia
Ora che avete trovato i Type 1 si tratta di decidere cosa farne. Passando in rassegna la lista scoprirete sicuramente che, salvo rari casi, la maggior parte delle occorrenze sono versioni obsolete di font comuni che già avete in altri formati più recenti o perché vi siete comprati FontFolio in una delle sue versioni o perché vi sono arrivate insieme all’impaginato da agenzie, clienti o colleghi. Così di Futura-Bold in versione screen con il suo corrispondente FuturaBo ne avrete sicuramente almeno un altro paio di versioni in TrueType e in OpenType, quindi buttate serenamente la versione Type 1. Tanto più che oggi, con gli abbonamenti Creative Cloud, Adobe dà accesso gratuitamente a una libreria di più di 20.000 font.
Qualora trovaste dei font che Adobe non ha nella sua collezione perché di fonderie diverse, potete sempre verificare sul sito della fonderia la politica di aggiornamento alla versione più recente. Il problema dei font obsoleti non è solo vostro e tutte le principali fonderie mettono a disposizione versioni aggiornate di font vecchie per le quali si possiede la licenza: se non l’avete è arrivato il momento di mettersi in regola. Il Libro Font di ogni carattere è in grado di mostrare i metadati e quindi le informazioni di licenza e della fonderia. Vale poi la pena di chiedersi: ma questo font mi serve davvero? Un tempo, quando i font erano più rari da trovare, averne una vasta collezione ha risolto molte emergenze: un lavoro consegnato senza font da correggere all’ultimo momento modificando il PDF, una versione corrotta che mandava in crash QuarkXpress, quel Bodoni rinominato che era Bauer e faceva scorrere diversamente tutto il testo. Ma oggi non occorre più essere accumulatori seriali di font, basta googlare per trovare quello che serve in più di una versione: quindi, i font che non avete mai usato, buttateli.
Soluzioni drastiche
Fatta questa prima pulizia e trovata la versione aggiornata, operazioni che sicuramente ridurranno in modo drastico il numero di Type 1, rimarranno una manciata di font per i quali non resta che trovare un’alternativa o procedere con una conversione. L’alternativa esiste di sicuro su open-foundry.com o su Google Fonts. Qualcuno, i più pignoli, storceranno il naso: l’asta di quella f è più fine, l’occhio di quella a più tondo, l’asse di quella o più inclinata… Il sito identifont.com, che dal 2000 mette a disposizione dei creativi strumenti per trovare i font più adatti alle loro opere, per esempio trova solo 3 differenze tra l’Adobe Garamond e l’ITC Garamond Light: nell’attacco della gamba della k maiuscola, nell’occhiello della p e nel becco della g maiuscola. Esercitate la vostra meticolosità nel trovare valide alternative: a volte si trovano soluzioni inaspettate o nuove fonti di ispirazione.
Se proprio siete affezionati al Pastonchi, disegnato dall’omonimo poeta ligure per Mondadori e usato nel 1927 per la collana I Classici italiani diretta da Francesco Flora, e di cui non esistono praticamente versioni digitali; oppure se nella vostra collezione ci sono font che avete disegnato e non più aggiornato, non resta che procedere con una conversione con un software dedicato. Diciamolo subito: non tutti sono in grado di convertire i Type 1; inoltre la conversione ottenuta necessariamente non sarà perfetta perché Type 1 e OpenType hanno proprietà leggermente diverse e non è detto che sia legale modificarli o convertirli. In ogni caso vale la pena di citare TranType di FontLab, FontXChange e per i più creativi FontForge, un vero e proprio editor di caratteri open source molto potente anche per disegnare un font da zero o da una bozza cartacea.
Si parva licet…
Il tema delle licenze è una questione annosa che coinvolge i font fin dalla loro prima digitalizzazione. Il font è un’opera dell’ingegno sul quale insiste un copyright; di più, spesso un font è stato realizzato da designer come Adrian Frutiger, Eduard Hoffmann (Helvetica), Paul Renner (Futura), Eric Gill (Gill Sans), solo per citarne alcuni, o da creativi che li hanno ideati e disegnati con studio, tempo e creatività; a maggior ragione se poi se ne fa un uso commerciale è giusto pagarne i diritti. Inoltre, il font non è il carattere tipografico, bensì la sua rappresentazione digitale e come tale è comparabile a un software, quindi è di proprietà della fonderia che lo distribuisce e che ne concede l’uso.
Questo è quello che dice la teoria; nella pratica, da un lato i font circolano liberamente insieme ai layout, dall’altra non si sa mai quale sia la politica corretta di licenza, tanto nessuno controlla. Certo chi li acquista per la prima volta è a posto con la licenza, nel senso che non è proprietario di quel font ma può usarlo. A onor del vero la questione è complessa. Tanto per cominciare ci sono le Desktop License, che si applicano alla maggior parte dei font installati sul computer o che sono disponibili in un software o in un sistema operativo: questi caratteri si possono usare, ma non per fini commerciali. Poi ci sono le licenze Webfont che consentono di usare un font acquistato per un sito web solo per quel sito e non per altri o per altri mezzi, come la carta. Solitamente questi font sono forniti attraverso servizi esterni (come Adobe Typekit, Google Webfont e siti come MyFonts) e non vengono scaricati da chi acquista la licenza: non si detiene il font fisicamente, ma è il CSS del sito che contiene il font stesso. Non ci sono limitazioni, invece, per gli OFL ovvero i font open source con i quali è possibile fare praticamente tutto tranne rivenderli; appartengono a questa categoria tutti i font gratuiti che Google mette a disposizione o quelli che si scaricano da openfoundry.com o dafont.com.
Fonti di guai
L’uso commerciale dei font, ovvero per un lavoro per il quale si riceve denaro, impone regole ben precise. In generale, è consentito l’uso di questi font solo se si possiedono i diritti licenza. Per evitare problemi, la cosa più semplice è che il grafico li abbia in fase di impaginazione (può averli acquistati anche per lavori precedenti) e il cliente per i suoi usi. Le licenze sono univoche e non possono essere utilizzate da aziende o persone diverse dell’intestatario della licenza. Nel caso si usi la propria licenza per un cliente, quest’ultimo non erediterà la licenza del font ma solo il diritto di utilizzare il prodotto finale realizzato con quel font. Quindi se impagino un catalogo al cliente non posso consegnare anche il pacchetto font, perché sarebbe una violazione della licenza: devo limitarmi ai PDF finali.
Se invece il cliente ha una licenza estesa comprensiva degli usi commerciali, siccome lavoro per il cliente non sono costretto ad avere la licenza anch’io: si sta usando materiale fornito dal cliente. In generale, visto che spesso si è ingaggiati anche per la fase creativa, il flusso corretto dovrebbe essere sperimentare con i font sul proprio computer la grafica e, una volta approvata, far acquistare al cliente la licenza estesa del font o, in alternativa, usare font open source.
Dove si compra la licenza? Si compra con il font. Spesso è possibile installare il font su due o più macchine dello stesso proprietario ma non è mai possibile cedere una copia a colleghi, fornitori o clienti.
Il mondo dopo il Type 1
Dopo questa digressione sulle licenze, torniamo al nostro Type 1. Bene, ci siamo liberati di tutti i font PostScript, li abbiamo buttati, sostituiti, riconsiderati in chiave open source, abbiamo rivisto impaginati che giacevano chiusi in vecchie versioni di InDesign o di QuarkXpress (ammesso che qualcuno lo usi ancora) e ora è arrivato il momento di rimettere ordine alla nostra collezione di caratteri. Per prima cosa, varrebbe la pena rifare la verifica di quanti TrueType abbiamo installati ed eventualmente valutarne l’aggiornamento alla versione OpenType. Potreste scoprire che avete un po’ di doppioni senza saperlo. Poi installate un programma di gestione font e disattivate tutti i caratteri che non usate di solito, a eccezione di quelli di sistema che non devono essere rimossi: tutti gli altri potete individuarli nel computer e copiarli in una cartella sulla Scrivania. Riavviate e lanciate una pulizia della cache dei font con il comando sudo atsutil databases -remove o in alternativa usate Onyx, una comoda utility di manutenzione che pulisce tutte le cache.
A questo punto non resta che riorganizzare i nostri font in collezioni. Evitate classificazioni da nerd che vadano oltre Serif e Sans Serif (o graziati e bastoni) altrimenti tra Old Style, Transizionali e Bodoniani il Baskerville non lo troverete più. Limitiamoci a una classica divisione alfabetica che aiuti noi a trovare i font e il motore di ricerca del Mac a indicizzarli. Non occorre costruirla a mano. Prendete tutti i vostri font e dateli in pasto a un programma di gestione dei font che di solito ha la possibilità di costruire un database o comunque delle collezioni, come FontDoctor. Esportatela e salvatela dove volete, ma non attivate tutti i font e non salvatela in una delle posizioni in cui il Mac legge e attiva i caratteri come /Users/nomeutente/Library, ~/Library/Fonts/, /Sistema/Libreria/Fonts o /Library/Fonts/. Potrebbe sembrare una buona idea, ma vi trovereste i programmi con i menu font sconfinati e lenti ad aprirsi, sovraccaricando la RAM. Caricate nel sistema solo i caratteri quando servono: InDesign, per esempio, legge e attiva i font direttamente dalla cartella in cui risiede l’impaginato, il che vi evita di attivare i font ed esporvi al rischio di doppioni o conflitti. Infine, nel sistemare la vostra collezione di font, ricordate di escludere il Comic Sans, il font meno amato dai grafici e il più usato a sproposito: eviterete di impaginarci la documentazione ufficiale del CERN per la scoperta del bosone di Higgs. Per errore, ovviamente.